Le antiche farmacie monastiche sono punto di incontro tra sacro e profano, chiostro e mondo. Tuttora le botteghe di conventi e monasteri offrono medicamenti e liquori, miele e tisane, in un servizio quasi liturgico al ben-essere della persona.
di Stefano Chiappalone
Un’insegna anticheggiante, soffitti alti e a volta, i ritratti di Esculapio, Ippocrate e Galeno insieme ai santi medici Cosma e Damiano, scaffali lignei e intarsiati con su meravigliosi vasi di ceramica dalle decorazioni florali e le iscrizioni latine a indicarne il prezioso medicamento che vi è contenuto. Qui si incontrano monaci e laici, sacro e profano, foresteria, distilleria e infermeria, sapienza popolare, esperienza e quei rudimenti di medicina che nei secoli passati si tramandavano anche attraverso le sacre mura. «Herbis, non verbis», ammoniva nel 1738 l’erbario del francescano Giuseppe di Massa Ducale, speziale del convento romano di Aracoeli, vale a dire: sono le erbe, non le parole dei medici a cacciar via i malesseri e restituire le forze. Gran parte dei farmaci proveniva infatti dall’orto dei semplici, ovvero dalle erbe medicinali, alla ricerca di un principio attivo prima che sorgesse la moderna industria farmaceutica. L’arte medica era tramandata non solo attraverso gli erbari, ma anche mediante le collezioni di piante essiccate e soprattutto la pratica trasmessa da una catena plurisecolare di monaci speziali e infermieri, quasi una sorta di «ordine minore», sia pure non sacramentale, dedito al ben-essere della persona. Nell’abbazia cistercense di Casamari, in provincia di Frosinone, consacrata nel 1217, la presenza di un infirmarius è attestata sin dalle origini e non limitata alle esigenze interne dei religiosi, come ricostruisce il volume di Placido Caputo e Domenico Torre, L’assistenza ospedaliera e farmaceutica nell’Abbazia di Casamari (sec. XIII-XX), Casamari 19842. Stando alle Costituzioni del 1864, «è già da antichissimo tempo, da che in Casamari esiste la Farmacia, che non è solo a uso della Comunità Religiosa, ma serve pure con pubblico spaccio de’ Medicinali alli bisogni ed occorrenza della popolazione […]». (p. 168), tanto che le stesse autorità civili si dovettero avvalere dell’opera dei cistercensi contro la difterite che nel 1873 colpì la frazione di Scifelli. Il capitolo XXXVI delle Costituzioni disciplina accuratamente anche la formazione, le qualifiche e le competenze del monaco incaricato di dirigere la farmacia.
Dagli unguenti ai decotti e da questi ai liquori il passo è breve: un digestivo, in fondo, è a suo modo un medicinale, per lo stomaco e per lo spirito. Così che la farmacia monastica è anche distilleria, dove tuttora troviamo bevande dai nomi altisonanti, come l’Elixir di San Bernardo e la Tintura Imperiale. Farmaci e liquori, dunque, ma anche miele e confetture, tisane, creme e saponi: come un antico codice che arricchisce e approfondisce il testo originale in un intreccio infinito di glosse, così nelle botteghe di conventi e monasteri si dipana tutto ciò che l’antica sapienza ha saputo trarre dall’ambiente naturale, dalla collina dove il monaco, «conoscitore esperto di mille piante, andava in cerca di quelle, le cui virtù medicinali le rendessero adatte per manipolazioni ed infusi. Discesa la sera egli rientrava nel monastero con le ceste ripiene di erbe, di foglie, di radici e di bacche» (p. 84) dalle virtù diuretiche, emollienti, sedative, e così via, con le quali «[…] secondo le stagioni, il monaco si chiudeva nel suo piccolo laboratorio e, nelle ore libere dalla preghiera comune, tra alambicchi e mortai, filtri e fornelli, manipolava i suoi medicamenti. Lo aiutava un altro confratello più giovane, cui egli affidava man mano i segreti delle sue ricette e delle sue formule prodigiose» (ibidem), con le quali guarire i mali quando possibile e prendersi cura del malato in ogni caso, realisticamente consapevoli – come la stessa medicina laica – che «contra vim mortis non est medicamen in hortis» (Regimen Sanitatis Salernitanum, LVIII).
Sabato, 23 aprile 2022