Di Marco Respinti da La bianca Torre di Ecthelion del 03/02/2019. Foto da articolo
Il Belpaese delle “convergenze parallele” non è mai morto, e venerdì quello dei “ni” che ne conseguono ha scritto un’altra pagina vergognosa. Nell’emiciclo di Bruxelles l’Italia ha infatti impedito che l’Unione Europea riconoscesse Juan Guaidó come presidente a interim del Venezuela. Nella riunione informale dei ministri degli Esteri tenutasi il giorno prima a Bucarest, gli altri 27 Stati membri avevano infatti trovato, come si apprende da diverse fonti diplomatiche, un accordo su una dichiarazione comune. Spagna, Francia, Germania e Regno Unito avevano già lanciato un ultimatum al tirannico regime socialista di Nicolás Maduro, che da anni affama il Venezuela, e così il ministro svedese degli Esteri, Margot Wallstrom, ha promosso una dichiarazione che avrebbe spinto la UE a fare altrettanto tra ieri e oggi. Serviva però l’unanimità dei 28 Stati membri. Gli occhi si sono quindi puntati subito sulla Grecia, il cui governo di sinistra, guidato da Alexīs Tsipras, avendo preso le difese del regime di Maduro, pareva un ostacolo insormontabile. E invece no. I compagni greci hanno consegnato i compagni venezuelani al proprio destino e Atene non si è esplicitamente opposta alla mozione Wallstrom. Il colpo di scena è quindi giunto, inaspettato (apparentemente), dall’Italia giallo-verde, che ha invece bloccato tutto. Maduro ringrazia.
A tirare la cordata che ha paralizzato la UE sono i ministri del Movimento 5 Stelle. Sul punto la Lega è infatti più confusa, benché poi si sia accodata. «L’Italia non riconosce Guaidó», ha sentenziato secco il sottosegretario pentastellato agli Esteri, Manlio Di Stefano, in un’intervista a Tg2000. Curioso, per non dire altro. Forse che i pentastellati non sappiano che Maduro è un usurpatore coi baffi?
Troppi organi di stampa dicono e ripetono che Guaidó si sia “autoproclamato” presidente ad interimdel Venezuela. Frottole. Ha invece fatto ciò che la Costituzione impone di fare per assicurare la continuità democratica di fronte a un grave abuso dispotico. Maduro è infatti stato eletto nel 2013. Nelle elezioni per il rinnovo dell’Assemblea nazionale (il parlamento) del 2015 ha vinto l’alleanza fra i partiti di opposizione. Maduro ha risposto convocando un’Assemblea nazionale costituente che però è illegittima poiché riservata ai soli membri fedeli al suo regime e preclusa all’opposizione, non riconosciuta né dal parlamento né dalla maggioranza dei Paesi e degli organismi internazionali. Questa ha indetto nuove elezioni nel maggio 2018: ovviamente Maduro le ha vinte, ma illegittimamente. Ora, la Costituzione venezuelana stabilisce che spetti al presidente dell’Assemblea nazionale assumere provvisoriamente la carica di presidente fino al ristabilimento della normalità democratica, cosa che è proprio quello che Guaidó ha fatto.
Molto probabilmente, però, non è ai sofisticati ragionamenti di diritto costituzionale venezuelano che il M5S si è affidato per affossare la benemerita iniziativa europea tesa a isolare il despota di Caracas nel tentativo di fargli abbandonare con le buone quel potere che esercita tirannicamente su una popolazione oramai allo stremo cui manca letteralmente di che mangiare e di che curarsi.
Sono piuttosto i partner di Maduro che hanno convinto i pentastellati. Infatti, tra Russia, Turchia, Siria, Iran, Hezbollah e Hamas, il primo nome sulla lista degli alleati del socialismo venezuelano è la Cina. Ebbene, la Cina è molto ben vista dai pentastellati. Fa nulla se è un Paese totalitario che pratica la repressione dei diritti umani come ai tempi bui della Rivoluzione Culturale maoista; fa nulla se incarcera arbitrariamente migliaia e migliaia di innocenti, tortura, condanna a morte ed espianta organi dai condannati per reati di coscienza spesso quando sono ancora vivi.
La Cina, infatti, si sta giocando tutto attraverso quella faraonica opera infrastrutturale e logistica che si chiama “Belt and Road Initiative” (già ribattezzata “Nuova Via della Seta”), che, unendo decine di Paesi su più continenti, mira a ridisegnare la globalizzazione “con caratteristiche cinesi”. In questo colossale Risiko neocoloniale, dove la Cina mira a comperarsi pezzi interi di nazioni (del loro debito sovrano o delle loro città, porti e vie di comunicazione), non c’è posto per i neutrali. O si salta sulla nave del nuovo Gran Timonieri Xi Jinping oppure si viene spazzati via. L’alternativa resterebbero gli Stati Uniti, gli unici in gradi di opporsi, ma è qui che scatta l’antiamericanismo pavloviano tanto diffuso a sinistra quanto a destra.
L’“unità sinofila” pentastellata ha del resto il proprio elemento di punta in Michele Geraci, sottosegretario allo Sviluppo per il M5S, ma già molto vicino anche a Matteo Salvini. Ingegnere elettronico a Palermo, master in Business administration al MIT di Boston con Franco Modigliani, Geraci è venuto grande a pane e Cina, Paese dove dal 2008 ha insegnato Finanza in tre università: University of Nottingham Ningbo China, New York University Shanghai e Università dello Zhejiang.
In agosto è tornato a Pechino e in settembre lo ha seguito a ruota il suo principale, Luigi Di Maio. Una staffetta dal ritmo inusitato. Xi Jimping ricambierà la cortesia in marzo. Cosa verrà a fare in Italia? A parlare di “Belt and Road Initiative”.
Probabilmente il M5S non sa nemmeno dove stia il Venezuela sul planisfero, ma dove invece si trovi la Cina lo sa benissimo. Dietro quella porta che si è già inchinato ad aprire.