Di Marco Respinti da IFamNews dell’08/01/2021
Un presidente vince le elezioni negli Stati Uniti d’America. I suoi rivali non accettano l’esito delle urne e lo dichiarano illegittimo. Frotte di violenti mascherati danno l’assalto. Ci sono vittime. Ma questo non ferma chi è convinto che le elezioni siano state rubate.
È quello che succede negli Stati Uniti d’America dal 9 novembre 2016, il giorno il voto popolare che ha poi dato la vittoria elettorale a Donald J. Trump, e quello che è successo il 6 gennaio 2021, davanti al conteggio dei voti con cui, il 14 dicembre, il Collegio Elettorale ha eletto Joe Biden. La stessa identica cosa, con le stesse frange estremiste, con le stesse violenze, con i morti, con la democrazia vulnerata. Tutto uguale. Tranne i commenti che da ore e ore si rincorrono identici. Dirette interminabili e vuote su quattro anni di destabilizzazione orchestrata e finanziata non le abbiamo mai viste. Quattro anni di delegittimazione, insulti, ingiurie, improperi, città a ferro e a fuoco, violenze, distruzioni, morti e polizia allora assassina e adesso immacolata, scandali inesistenti, «Russiagate» inventati, indagini FBI sbugiardate dalla stessa FBI comunque non condiscendente, ridicoli processi di impeachment finiti prima ancora di iniziare sono stati sbianchettati senza che nessuno alzasse un dito.
Proprio oggi “iFamNews” racconta quanto siano democratici i democratici che hanno aperto le danze dei disordini con molto anticipo, lunedì, assalendo la casa del senatore Repubblicano Josh Hawley e restiamo tra i pochissimi a farlo.
La gaffe di La7
Un quadro disarmante. Esattamente quanto la foga dilettantesca con cui i grandi mezzi di comunicazione pronunciano le parole «fake news», che per definizione sono sempre e solo quelle degli altri. Ne è emblema la gaffe di Enrico Mentana nella lunga notte tra il 6 e il 7 gennaio su La7. Non tanto l’avere attribuito immagini tratte da una commedia di Hollywood alle violenze pro-Trump, e forse nemmeno il commento dell’“esperto” di turno, il giornalista Gerardo Greco («probabilmente è nei sobborghi»), bensì la scempiaggine precedente di cui non molti si sono avveduti: la statua di Cristoforo Colombo che stava sul Campidoglio di St. Paul, in Minnesota, abbattuta in giugno dai “democratici” di sinistra, che l’ineffabile “esperto” Greco commenta dicendo che sarebbe opera di fanatici pro-Trump in odio a un certo retaggio italiano degli Stati Uniti. Con i pomodori che marciscono nei campi.
Si può sbagliare, certo, ma bisogna ammetterlo. Mi sto perdendo dietro la pagliuzza nell’occhio di La7 per non vedere la trave conficcata nel mondo trumpiano? Affatto. Stigmatizzo un meccanismo: si vede quel che si vuole vedere, e nessuno cambia canale.
La nuova guerra civile americana
Gli Stati Uniti sono in guerra civile. Ma da ben prima del 6 gennaio. Rispetto alle guerre civili di sempre oggi a differire è il fondale: il fondale, oggi, è quello da “guerra fredda” e da “guerra di quarta generazione”, quella cioè sorniona e sporca, decentralizzata e non convenzionale, dove i confini fra combattimento, politica e informazione, conflitto e pace, soldato e civile sfumano lungo una linea del fronte tanto spezzata da apparire spesso un nastro di Möbius.
Non saprei bene dire quando la nuova guerra civile americana sia iniziata. Vedo che è già in atto davanti a certe vampate eclatanti. Una è stata sicuramente l’elezione di Trump nel 2016.
Le guerre non sono mai belle, ma le guerre civili sono ancora più odiose. Abbattono gli amici, uccidono i fratelli, dividono uno stesso popolo. È l’angoscia più nera. Quel che gli “esperti” non comprendono è che la democrazia americana ferita il 6 gennaio al Campidoglio non è una formuletta illuministica buona per la prima serata, bensì l’ethos che fa sì che un popolo sia un popolo: il popolo che la guerra civile lacera. Se fossi un Democratico americano adesso mi fregherei le mani.
Lotta per la sopravvivenza
Di Donald Trump ne esistono due: ovvero anche con Trump vale ‒ per analogia e servata distantia ‒il discorso sui «due corpi del re» elaborato per la «teologia politica» dallo storico tedesco Ernst Kantorowicz (1895-1963).
Il mistero uomo – per riecheggiare una formula intrigante del neurofisiologo e filosofo australiano Sir John C. Eccles (1903-1997) – racconta di un personaggio improbabile che si mette al servizio del bene. Sono cose che a pensarci rompono il capo, suonando l’allarme: è lì che ci si rende palpabilmente conto che non tutto è accessibile al ragionamento umano. Supplisce allora la suggestione. Oggi più che mai Trump è e resta il Mozart dell’Amadeus di Miloš Forman (1932-2018). Insopportabile, insostenibile, ma quando si mette al pianoforte si commuove addirittura il Cielo.
Quel che è accaduto il 6 gennaio è grave. Ma i massimalismi non fanno mai bene. Chi si è macchiato di crimini va punito, ma non confuso con chi di crimini non ne ha compiuti. Troppi “esperti”, invece, e troppi colleghi dell’informazione stanno invece facendo il contrario da ore.
Soprattutto la gravità di quanto accaduto il 6 gennaio al Campidoglio aumenterà se aiuteremo i cattivi a cancellare completamente il buono ‒ tantissimo ‒ che Trump ha fatto sui princìpi non negoziabili così come su molti dossier più negoziabili ma non per questo meno importanti. I cattivi hanno già cominciato la damnatio memoriae. Cadere nella loro trappola sarebbe pugnalare quel secondo corpo di Trump che deve invece sopravvivere al primo.
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