di Michele Brambilla
L’udienza generale del 19 febbraio è dedicata alla terza beatitudine del Vangelo di san Matteo, «Beati i miti perché avranno in eredità la terra» (Mt 5,5). «Il termine “mite” qui utilizzato», spiega il Pontefice, «vuol dire letteralmente dolce, mansueto, gentile, privo di violenza». Non a caso «la mitezza si manifesta nei momenti di conflitto, si vede da come si reagisce ad una situazione ostile. Chiunque potrebbe sembrare mite quando tutto è tranquillo, ma come reagisce “sotto pressione”, se viene attaccato, offeso, aggredito?».
La Scrittura tramanda il nome del mite per eccellenza: «in un passaggio, san Paolo richiama “la dolcezza e la mansuetudine di Cristo” (2 Cor 10,1). E san Pietro a sua volta ricorda l’atteggiamento di Gesù nella Passione: non rispondeva e non minacciava, perché “si affidava a colui che giudica con giustizia” (1 Pt 2,23)». La mitezza di Cristo si manifesta, quindi, nel momento della prova suprema a cui il Messia viene sottoposto.
Il Papa evidenzia che «nella Scrittura la parola “mite” indica anche colui che non ha proprietà terriere; e dunque ci colpisce il fatto che la terza beatitudine dica proprio che i miti “avranno in eredità la terra”», nel senso che nella realtà escatologica possiederanno l’intero pianeta, purificato dalla presenza del male.
Come avverrà questo trionfo della bontà sulla malvagità? Con i medesimi metodi della mitezza. Francesco fa notare che per Gesù i miti «[…] non conquistano la terra». Il Vangelo «non dice “beati i miti perché conquisteranno la terra”. La “ereditano”. Beati i miti perché “erediteranno” la terra». Un verbo che nella lingua ebraica ha un valore del tutto particolare: «il Popolo di Dio chiama “eredità” proprio la terra di Israele che è la Terra della Promessa. Quella terra è una promessa e un dono per il popolo di Dio, e diventa segno di qualcosa di molto più grande di un semplice territorio. C’è una “terra” – permettete il gioco di parole – che è il Cielo, cioè la terra verso cui noi camminiamo: i nuovi cieli e la nuova terra verso cui noi andiamo (cfr Is 65,17; 66,22; 2 Pt 3,13; Ap 21,1)». Corrisponde, quindi, alla Salvezza.
Spesso, ammette il Papa, il mite è considerato un debole, qualcuno che si rassegna alle ingiustizie, ma quanti danni hanno compiuto coloro che hanno pensato di risolverle hic et nunc con la forza della loro rabbia? «Qui dobbiamo accennare al peccato dell’ira, un moto violento di cui tutti conosciamo l’impulso. […] quante cose abbiamo distrutto con l’ira? Quante cose abbiamo perso? Un momento di collera», infatti, «può distruggere tante cose; si perde il controllo e non si valuta ciò che veramente è importante, e si può rovinare il rapporto con un fratello, talvolta senza rimedio. Per l’ira, tanti fratelli non si parlano più, si allontanano l’uno dall’altro. E’ il contrario della mitezza. La mitezza raduna, l’ira separa».
In fin dei conti «la “terra” da conquistare con la mitezza è la salvezza di quel fratello di cui parla lo stesso Vangelo di Matteo: “se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello” (Mt 18,15). Non c’è terra più bella del cuore altrui». Come afferma una celebre massima attribuita a sant’Agostino (354-430), «animam salvasti, animam tuam praedestinasti».
Giovedì, 20 febbraio 2020