Di Stefano Caprio da AsiaNews del 01/06/2024
In questa delicata fase della guerra mondiale – dall’Ucraina alla Palestina agli scenari legati alle prossime elezioni in Europa, in Inghilterra, in America, in Georgia e nel mondo intero – i russi si sentono sempre più delle vittime e dei “perdenti”, e risuona sempre più nelle discussioni pubbliche, sui social e nelle interviste semiclandestine e dall’estero, una parola che definiva la condizione della popolazione russa negli anni Novanta: i poterpevšie, “quelli che hanno perso”. Allora si riferiva alla frustrazione degli sconfitti della guerra fredda, che aveva condotto alla fine dell’Urss e alla profonda crisi economica degli anni gorbacioviani. Come ricorda l’editorialista di Radio Svoboda Sergej Medvedev, “sentii questa parola la prima volta dal salumiere, quando un pensionato si lamentava della scarsa razione di salame che gli era stata consegnata, e la commessa gli disse rassegnata: ‘smettila di lamentarti come un poterpevšij’, concedendogli benevola una fettina in più, quando il salame scarseggiava perfino a Mosca, e in provincia era ormai soltanto un mito”.
I russi si sentono sconfitti non per la durezza del regime putiniano e le repressioni politiche, non per il corso stagnante della guerra in Ucraina e il sacrificio dei giovani al fronte, e neanche per la riforma fiscale che succhierà valanghe di soldi per mantenere l’industria bellica. Il lamento è ancora per quella umiliazione di oltre trent’anni fa, per le sofferenze “dei Novanta”, il peccato originale che non lascia in pace le coscienze nonostante tutti i successivi sconvolgimenti mondiali. Tutte le colpe risalgono a quell’infelice passaggio storico, e la stura alla nuova ondata di vittimismo è stata data da una serie di video-documentari diffusi a partire da metà aprile da Maša Pevčik, una delle più note collaboratrici del martire Aleksej Naval’nyj, dal titolo Predateli, “Traditori”. Girati con il tipico stile scandalistico del movimento navalnista del “Fondo per la lotta alla corruzione”, i racconti scaricano tutte le colpe e le responsabilità di quanto oggi accade sui banditi e i corrotti che hanno impedito lo sviluppo di una società libera e democratica, finendo per consegnare la Russia allo zar degli oligarchi, il padrino mafioso Vladimir Putin.
Nei giorni scorsi il dibattito è stato rilanciato in modo clamoroso da un’intervista realizzata da uno dei più seguiti video-blogger, Jurij Dud, a uno dei grandi protagonisti del periodo eltsiniano, il petroliere Mikhail Khodorkovskij, divenuto poi oppositore di Putin e sua vittima nel lager per un decennio, per poi essere amnistiato a fine 2013 ed esiliato all’estero, dove rappresenta una delle voci più seguite dell’opposizione liberale. Anch’egli ha ripreso i toni accusatori della Pevčik, soprattutto nei confronti di politici che hanno organizzato la transizione da Eltsin a Putin come Anatolij Čubajs, il “grande burattinaio” che dall’inizio dell’invasione dell’Ucraina ha abbandonato la Russia e ora vive in Israele, dopo essere scampato per miracolo al classico avvelenamento dei servizi segreti. Si è quindi diffuso il detto che i russi “non soffrono per Kharkov, ma per Čubajs”, in un mese di terribili bombardamenti in Ucraina tra Černigov, Odessa e Kharkov con morti e stermini, mentre in Russia si discute delle scelte degli oligarchi di trent’anni fa.
A Kharkov i medici legali prendono dai bambini i campioni di Dna per cercare di riconoscere i corpi dei loro genitori dilaniati dalle bombe russe, mentre i russi si scannano a parole per decidere la verità delle aste finanziarie del 1994, della privatizzazione di Svjazinvest nel 1997 che diede inizio al crollo delle piramidi finanziarie e dei ruoli della “famiglia di Eltsin” che a fine secolo se la spassava nella reggia dell’Osennyj Bulvar a Mosca, per poi lasciare il potere in mano a Putin in cambio dell’immunità totale, di cui tuttora godono le figlie e gli eredi nell’esilio dorato londinese. Il serial della Pevčik in realtà è la realizzazione del “testamento politico” dello stesso Naval’nyj, che egli espresse nel testo diffuso dal lager “Il mio timore e il mio odio” dell’agosto 2023, quando egli per primo si scagliò contro i politici del decennio post-sovietico. Al di là delle ragioni e dei torti, stupisce l’enorme interesse con cui tutti i russi, risvegliandosi dallo stato di totale atarassia e indifferenza rispetto agli eventi in patria e all’estero, si sono messi a “sezionare le ossa” di quegli anni ormai lontani.
Parlano dei Novanta sia i propagandisti putiniani sia i pubblicisti di opposizione, i boomer e gli zoomer, i più anziani e i più giovani, tutti avviluppati nei sensi di colpa e nei risentimenti che fanno sentire vittime di ogni male dei tempi vicini e lontani, dell’Occidente e dell’Oriente, della guerra fredda e di quelle precedenti, dall’invasione napoleonica al giogo tartaro medievale. Medvedev chiama questo atteggiamento “la morale degli schiavi”, l’odio vendicativo della persona “umiliata e offesa”, per richiamarsi ai termini dostoevskiani, di colui che si sente impotente di fronte alla rovina del destino personale e comunitario, e cerca di scaricare ogni colpa sul male proveniente da ogni parte. L’uomo del “sottosuolo” di Dostoevskij, che viveva in uno scantinato di San Pietroburgo dopo una serie di umiliazioni ricevute da parte delle autorità e della società locale, sognava di distruggere il “Palazzo di Cristallo” della lontana Londra, la sede del Maligno su cui riversava le sue pretese di vendetta.
È la domanda maledetta espressa dal padre dei rivoluzionari russi dell’Ottocento, Aleksandr Herzen: kto vinovat?, “di chi è la colpa?”, che si rivolgeva in sequenza ai tatari, ai boiari latifondisti, ai nemtsy (tedeschi o stranieri in generale), agli ebrei, agli anglosaksy, agli zar e ai sovietici, e ora ai “selvaggi anni Novanta” degli oligarchi. I protagonisti di allora sono morti da tempo come Eltsin e Gajdar, o sono dispersi in esilio come Khodorkovskij e Čubajs, eppure la rabbia nei loro confronti non solo non si spegne, ma si alimenta sempre di più, non potendo evidentemente prendersela con la casta attualmente al potere per evitare spiacevoli conseguenze. È una specie di “odio terapeutico”, senza senso ormai e senza conseguenze, ma permette di canalizzare la frustrazione e di riconciliarsi con un presente altrimenti insopportabile, attribuendo un’identità a chi si sente escluso dalla realtà mondiale.
La “retropolitica” del resto è una caratteristica russa tradizionale, che idealizza i brevi periodi di apertura discutendone negli infiniti tempi di “stagnazione”, come avveniva al tempo di Brežnev dopo i pochi anni del “disgelo chrusceviano”, nelle cantine dove si radunavano i dissidenti del samizdat o nei circoli degli intellettuali in esilio che litigavano in continuazione, o si rinchiudevano nell’eremo della loro sdegnata solitudine, come Solženitsyn nel gelo canadese del Vermont. È un ciclo che si ripete da secoli: prima della rivoluzione bolscevica ci fu il “Secolo d’Argento”, un’esplosione di creatività tra il 1905 e il 1917, dopo la vittoria su Napoleone ci fu il “Magnifico Decennio” tra gli anni Trenta e Quaranta dell’Ottocento, con il grande dibattito tra slavofili e occidentalisti, e così risalendo fino allo scisma seicentesco tra i riformatori e i “Vecchio-credenti”, o alla disputa tra i monaci pauperisti e quelli “statalisti” di fine Quattrocento, per ribadire una corrispondenza dell’anima russa con i tempi atmosferici, che prevedono brevi primavere e inverni senza fine.
In queste fugaci aperture e finestre sul mondo esterno, la Russia riesce ad inghiottire le culture, le religioni, le scoperte scientifiche e le trasformazioni sociali dei popoli europei, asiatici e degli altri continenti per poi rigettarle all’improvviso, trattenendo solo una propria versione deformata e isterica, come si può vedere in modo clamoroso con la “rinascita religiosa”, la riscoperta della fede che animava le persone degli anni Novanta in una sincera ricerca di spiritualità e significato, per poi sprofondare nell’Ortodossia patriottica e militante che benedice la guerra e le stragi, con una criminale superbia che fa impallidire anche la predicazione delle Crociate medievali. Questa deriva si applica anche alla politica e all’economia, alla morale e alla cultura, alla scuola e ad ogni istituzione della società russa attuale. In questi giorni è stata perfino pubblicata una nuova rivista dal titolo Politruk, il “dirigente politico” (Političeskij Rukovoditel) di sovietica memoria, un manuale di istruzione militare in cui accanto ad ogni ufficiale e ogni soldato ci deve essere un istruttore e “suggeritore politico”, che “con la sua parola ispirata e l’esempio di dedizione senza riserve al servizio della Patria possa cementare lo spirito dei collettivi militari”, come recita l’introduzione del vice-ministro della difesa, il generale Viktor Goremykin.
Del resto il Politruk era stato reintrodotto già a febbraio dallo stesso Putin in tutti gli organi statali con un decreto “riservato”, per cui ad ogni carica deve corrispondere un “vice-direttore per le funzioni politiche e sociali”, come avveniva appunto ai tempi di Stalin. Lo scopo è sempre quello di “rafforzare il patriottismo e garantire un’adeguata e approfondita comprensione della politica statale”, spegnendo ogni velleità di ritrovare sé stessi, di ritrovare la Russia dispersa negli anni Novanta, e nella nebbia delle storie passate.