Di Silvia Scaranari da Edificati sulla Roccia del 22/08/2021
l caos (assolutamente prevedibile) generato dal ritiro delle truppe USA a metà agosto è noto a tutti attraverso le immagini dei mass media. Senza ripetere cose dette e ridette, proviamo ad entrare un po’ più a fondo sul territorio e nella storia di questo martoriato Paese.
Prima di tutto è un territorio montuoso enorme (652.230 Km², contro i nostri 302 068,26 km²), con una popolazione relativamente scarsa, forse 38-39 milioni di abitanti, divisi in decine di etnie fra cui le più significative sono quella pashtun (42%), musulmana sunnita, dedita all’agricoltura, controlla larga parte del commercio della droga che dai campi afghani invade mezzo mondo; quella tagika, 29%, occupa la parte nordorientale del paese, è a maggioranza sciita e parla il farsi; vengono poi gli hazara, i turkmeni e i kirghizi prevalentemente nomadi e sunniti, i baluci anch’essi nomadi nell’area confinante con l’Iran, gli aimaq, prevalentemente pastori e contadini; i nur, la cui presenza risale ai tempi di Alessandro Magno; gli uzbeki, in gran parte fuggiti quando si è formata la Repubblica uzbeka. Alla pluralità etnica corrisponde una pluralità di idiomi anche se le lingue ufficiali sono il dari e il pashto.
L’Afghanistan è una “terra di mezzo” – per dirla con Tolkien – che unisce l’Asia orientale con l’Asia centrale e con l’Asia meridionale rappresentando, dall’antichità ad oggi, un crocevia di popolazioni, merci, lingue e vie di comunicazione. Dall’antichità ai tempi moderni tutti sono passati sul suo territorio rendendolo un vero “carosello del mondo antico “ secondo lo storico inglese Arnold Toynbee: Indoariani, Medi, Persiani, Greci con Alessandro Magno, Maurya dal nord dell’India, Unni bianchi (nomadi fra Cina, India e Asia centrale), Sasanidi e infine, a metà del VII sec., Arabi che hanno islamizzato il territorio.
Nel 1219 l’area cade in mano ai Mongoli di Gengis Khan ma dopo la sua morte, nel 1227, il potere si frantuma in piccoli potentati fino alla ripresa da parte di Tamerlano che inserisce l’Afghanistan nel vasto impero asiatico. All’inizio del 1500, un suo discendente, Babur, fonda l’impero Moghul in India e trasforma parte dell’Afghanistan in una provincia indiana. Altri pezzi di territorio finiscono sotto gli Uzbeki a nord e i Persiani a ovest. Dopo una serie di scontri che vedono contrapporsi i pashtun e i persiani, la tribù pashtun durrani, con Ahmed Shah Durrani nel 1747, riesce a riconquistare ampia parte dell’Afghanistan odierno e a controllarla fino al XIX sec. quando il Paese diventa oggetto del Grande Gioco fra Russi e Inglesi e finisce ad essere controllato dalla Corona britannica.
La lotta per l’indipendenza è continua tanto che nel 1919 l’Inghilterra firma il Trattato di Rawalpindi in cui si riconobbe la completa autonomia dello Stato. Tra il 1919 e il 1929 il sovrano Amanullah Khan, ammiratore di Mussolini e soprattutto di Mustafà Khemal Ataturk, cerca di modernizzare e occidentalizzare il suo Paese: nel ’21 vara la Costituzione con uguali diritti per uomini e donne, promulga un nuovo “statuto personale” (diritto di famiglia) con cui vieta matrimonio delle bambine e le doti troppo costose, introduce un tribunale a cui possono ricorrere le donne vittime di torti in famiglia, rende obbligatoria la scolarizzazione anche per le donne fino alla quinta classe, abolisce l’uso del velo e costruisce ospedali, ottenendo però una dura contestazione da parte della maggioranza della popolazione, decisamente più conservatrice, tanto che è costretto ad abdicare ed andare in esilio a Roma dove poi morirà nel 1960. I successori tentano una via più moderata alla modernità ma senza significativi successi. Nel 1953 diventa primo ministro Mohammed Daoud Khan che avvicina il Paese all’URSS e favorisce una nuova Costituzione che apre ad una democratica competizione fra diversi partiti. Tra questi il Partito Democratico Popolare infeudato a Mosca ma ben presto diviso in due branche per le lotte intestine e plurisecolari fra l’etnia durrani e quella ghilzai: la fazione Khalq (Popolo) capeggiata da Nur Muhammad Taraki e da Hafizullah Amin e la fazione Parcham (Bandiera) guidata da Babrak Karmal molto legato alla Russia. Dopo alterne vicende, nel 1977 un colpo di stato porta al potere Noor Mohammed Taraki, segretario del Partito Democratico, che proclama la nuova Repubblica Democratica dell’Afghanistan sotto l’egida dell’URSS. Si torna alle riforme radicali: la riforma agraria, l’abolizione del velo, il divieto per gli uomini di portare la barba, l’abolizione dei tribunali tribali, la costruzione di ospedali e scuole, la nascita di sindacati, il diritto di voto alle donne, l’abolizione delle leggi tradizionali sostituite da altre di chiara ispirazione marxista. Questo atteggiamento genera subito la resistenza del mondo religioso che proclama il jihad contro il governo ateo e traditore del popolo. L’aiuto esterno non basta e nel 1979 i Sovietici invadono l’Afghanistan provocando nei dieci anni successivi una guerra civile con un milione e mezzo di morti.
La composita alleanza mujaheddin – che comprende tutto l’islam politico e le minoranze etniche –, con l’aiuto del Pakistan e degli Stati Uniti, scaccia i sovietici dal paese, e nel 1992 elegge il moderato sufi Sibghatullah Mujaddedi, al posto del comunista Najibullah, e nel ‘93 il centrista Rabbani che nomina il tagiko Massud capo dell’esercito. Di fatto, Rabbani non riuscirà mai a controllare l’intero territorio nazionale: le minoranze etniche diverse dalla tagika sono tutte in rivolta, e l’area pashtun è spezzettata in piccole zone ciascuna di fatto governata da un «signore della guerra» spesso legato alla malavita.
Come gli iraniani nel 1979 sono scesi nelle piazze per riconquistare il potere nello Stato, così anche in Afghanistan i credenti nell’islam scendono sul campo di battaglia per riconquistare la propria sovranità nazionale e la libertà di vivere la propria fede contro il comunismo ateo.
E oggi si ripete lo stesso scenario: contro gli Americani e gli Europei, percepiti come lo straniero occupante, scendono in piazza i nuovi Telebani che assicurano di essere diversi da quelli di vent’anni fa ma la prova dei fatti ci dirà la verità. Per capire occorre non ascoltare quello che dicono, ma guardare quello che faranno.
Purtroppo, nessuno ha mai imparato la lezione. Tutti hanno voluto domare l’Afghanistan: ci ha provato Alessandro Magno, ci hanno provato i sasanidi, ci ha provato l’Inghilterra e poi gli stessi afghani occidentalizzati con il primo re dopo l’indipendenza del Paese, Amanullah Khan, e poi Mohammed Daoud Khan e Mohammed Taraki con i comunisti russi, e infine le forze della NATO, ma ancora una volta il Paese si è ribellato.
Negli ultimi due decenni miliardi di dollari sono stati versati in questo Paese per renderlo democratico, per rendere possibile il “progresso” ma ci si è dimenticati di interrogarsi su quale “progresso” volessero davvero gli Afghani. Quello occidentale, pieno di “libertà” che sono ridotte al livello dei desideri dei singoli, pieno dei suoi “diritti” che hanno mutato l’antropologia e che fanno sventolare sull’ambasciata americana la bandiera Lgbt?
L’Afghanistan è diventata da pochi giorni un Emirato ma era una Repubblica democratica presidenziale secondo la Costituzione del 2004. Fino al 2021 ha avuto Parlamento bicamerale composto dalla Camera alta (Meshrano Jirga) e dalla Camera bassa (Wolesi Jirga). I titolari dei 102 seggi della Camera Alta erano eletti per un terzo dai 34 consigli provinciali, con mandato di quattro anni, per un terzo (34 seggi) dai consigli di distretto, con mandato triennale e per un terzo nominati dal Presidente, con mandato di durata quinquennale. La Wolesi Jirga conta 249 seggi i cui titolari erano eletti con sistema proporzionale e mandato quinquennale. Le disposizioni elettorali riguardanti la Camera bassa stabiliscono, a seconda della densità dei distretti, da un massimo di 33 ad un minimo di 2 parlamentari eletti e, fra questi, 68 devono essere donne. Il Presidente era affiancato da due Vicepresidenti eletti assieme a lui con voto diretto e con il sistema maggioritario a doppio turno. I membri del Governo, che riflette tradizionalmente la composizione etnica del paese (Pashtun 42%, Tajiki 27%, Azari 9% ed Uzbeki 9%, il resto alle minoranze) vengono nominati dal Presidente ed ottengono la fiducia individuale dalla Camera bassa del Parlamento.
Questo sistema non è stato oggetto di particolare critica, poteva funzionare. Quello che evidentemente non piaceva era l’eccessiva sudditanza agli USA e l’impostazione laicista del Governo, oltre al persistere dei secolari scontri etnici, alla brama di potere, al desiderio di guadagno e quindi possesso dei territori ricchi, alle ingerenze di altri stati asiatici islamici e non.
L’Afghanistan è un Paese ricco e nonostante questo l’inefficienza politica degli ultimi vent’anni ha causato una forte disoccupazione con una crescita demografica che vede il 62% della popolazione sotto i 24 anni e solo il 2,7 % sopra i 61 anni (in Italia sono il 22%). L’Afghanistan è povero non per mancanza di risorse ma perché preda di una fitta rete di corrotti, violenti, approfittatori che i governi Karzai prima e Ghani dopo hanno lasciato proliferare. I Telebani non sono spuntati dal nulla il 14 agosto, sono presenti sul territorio da sempre, e se è vero che ricevono rifornimenti militari dal vicino Pakistan, è anche vero che hanno un significativo appoggio da parte della popolazione. La loro presenza era forte, tanto che gli USA hanno stilato con loro gli accordi di Doha nel 2020, non con i pastori o gli agricoltori. In questi accordi i Telebani si sono impegnati a interrompere le operazioni militari, ad impedire che gruppi terroristici usino il Paese come trampolino di lancio contro l’Occidente, e a dialogare con il Governo di Ghani finora non riconosciuto e considerato solo un fantoccio degli Stati Uniti. Allo stesso tempo hanno voluto l’impegno al ritiro delle truppe americane, hanno detto e ripetuto che il loro scopo era un Paese libero e governato secondo la shari’a. I servizi scandalizzati dei media occidentali fanno sorridere se non arrabbiare e tanto. Tutto era previsto, tutto era dichiarato, perché all’improvviso ci scandalizziamo così tanto? Gli accordi si dovevano stilare con i Telebani quando questi occupavano già metà del Paese o si doveva impegnare tempo e denaro nei due decenni precedenti per appoggiare le forze islamiche tradizionali ma pacifiche? Si doveva spingere sull’occidentalizzazione o sul garantire al Paese un sistema amministrativo e legale, una forza di polizia (come ammirevolmente fatto dai contingenti italiani), un controllo territoriale facente capo al governo e non lasciato in mano alle diverse etnie, una formazione delle forze governative alla lotta reale alla corruzione e alla vendita di droga? Si doveva importare un modello di donna americana o si doveva investire su formazione e educazione del mondo femminile ma rispettoso del sentire religioso e dei costumi locali?
Ora si versano lacrime di coccodrillo e ci si stracciano le vesti ma non tutto è perduto perché, come scrive Padre G. Ricci nel libro testimonianza Parroco a Kabul, l’Afghanistan è un Paese ricco di materie prime ma soprattutto ricco di fantasia e di speranza perché ricco di giovani. Il Paese può risorgere, speriamo che il desiderio viva nel cuore degli Afghani.