di Maurizio Milano
1. Lo “Stato del benessere”
Il termine “Welfare State”, “Stato del benessere”, viene utilizzato a partire dalla seconda guerra mondiale per designare un sistema socio-politico-economico in cui la promozione della sicurezza e del benessere sociale ed economico dei cittadini è assunta dallo Stato, nelle sue articolazioni istituzionali e territoriali, come propria prerogativa e responsabilità. Il Welfare State, detto anche “Stato sociale”, si contraddistingue per una rilevante presenza pubblica in importanti settori quali la previdenza e l’assistenza sociale, l’assistenza sanitaria, l’istruzione e l’edilizia popolare; e tale presenza si accompagna generalmente a un atteggiamento interventistico e dirigistico nella vita economica, sia a livello legislativo, sia attraverso la pianificazione e la programmazione economica, sia attraverso imprese pubbliche. Il Welfare State, con il corollario dello Stato-imprenditore, rappresenta la modalità di gestione dello Stato contemporaneo nei paesi capitalisti a regime democratico. Dalla metà degli anni 1960 si è cominciato a parlare di “Stato assistenziale”, come degenerazione dello “Stato sociale”, per indicare la crisi profonda di tale modello nella generalità dei paesi in cui è stato adottato.
2. Nascita e sviluppo
Il Welfare State nasce storicamente con l’emergere delle contraddizioni dell’economia capitalistica, la distruzione della civiltà contadina e della solidarietà familiare e di villaggio, la nascita del proletariato, l’urbanizzazione, l’emigrazione, l’estensione del diritto di voto e l’avvento al potere dei partiti socialdemocratici. Tali trasformazioni socio-economico-politiche fanno emergere nuove forme di povertà, con difficoltà crescenti per la famiglia e le varie realtà intermedie a provvedervi in modo adeguato. Il susseguirsi di periodiche recessioni economiche, accompagnate da elevati tassi di disoccupazione, la necessità di provvedere alle esigenze di vedove, di orfani e di tutti coloro che per vari motivi mancano delle risorse necessarie per vivere – invalidi, anziani, e così via – fa nascere l’esigenza di un coinvolgimento diretto dello Stato. Negli anni 1883-1892, in Germania, Otto von Bismarck (1815-1898) istituisce un regime di leggi sociali a favore dei ceti più bisognosi – un precedente sono le poor law, “leggi per i poveri”, varate in Inghilterra nel 1601 e soppresse nel 1834 – ma solo dagli anni 1920 tali misure raggiungono un’estensione e un’organicità tali da poter parlare di vere e proprie politiche sociali. Una pietra miliare nell’edificazione dello Stato sociale è il Social Security Act, “Atto per la Sicurezza Sociale”, promulgato negli Stati Uniti d’America nel 1935. In Europa va ricordata la politica sociale inglese dopo il Rapporto Beveridge del 1942, che diviene il manifesto teorico-programmatico del Welfare State.
Nel secondo dopoguerra, grazie anche al dividendo fiscale generato dalla forte crescita economica, la maggior parte dei paesi capitalisti muove a passi veloci nell’edificazione del Welfare State, che raggiunge la sua massima estensione in Svezia e nei paesi nordici. In Italia, a partire dal primo governo di centro-sinistra (1962-1963) si assiste a una forte crescita di leggi, istituzioni e politiche che configurano un vero e proprio Stato sociale. L’apogeo sarà raggiunto alla fine degli anni 1970 quando i ritmi di espansione del Welfare State – accompagnati da pressione fiscale, disavanzi di bilancio e debito pubblico in crescita esponenziale – diventano incompatibili con un contesto economico profondamente segnato dalla recessione. Negli anni 1980 il Welfare State si consolida, ma i costi per sostenere il sistema non cessano di aumentare, anche a causa di una spirale perversa disavanzo-crescita del debito pubblico-maggiori interessi passivi-disavanzo, e così via.
3. La crisi
La politica sociale degli Stati moderni, negli auspìci dei suoi promotori, dovrebbe attenuare le contraddizioni dell’economia capitalistica, conciliando le esigenze di produttività e di efficienza con quelle di sicurezza, di protezione e di benessere diffuso. Perciò tali politiche dovrebbero garantire le esigenze di giustizia distributiva, di equità e di solidarietà nei confronti delle fasce più bisognose della popolazione, promuovendo così la pace sociale. Sempre nelle intenzioni dei suoi sostenitori, il Welfare State dovrebbe rappresentare la mitica terza via fra il sistema capitalista e quello socialista, una via né liberista né dirigistica. Di qui la crescita di atteggiamenti consociativi che portano il mondo politico, sindacale e del grande capitale a “cooperare in nome del Bene Comune del Paese”.
A partire dalla metà degli anni 1960 si è progressivamente assistito a un forte aumento nel numero e nella dimensione degli apparati pubblici, dominati da logiche burocratiche e clientelari, al tempo stesso inefficienti e inadeguati. Inoltre, i trasferimenti di redditi e di ricchezza fra i differenti settori e categorie generati dal sistema della “sicurezza sociale” si sono rivelati spesso arbitrari e iniqui, ingiustificati anche secondo una logica puramente assistenziale. In Italia la spesa pubblica totale in rapporto al PIL, il Prodotto Interno Lordo, è passata da un valore inferiore al 30% negli anni 1950 al 36,3% nel 1970, raggiungendo il 48,8% nel 1980 fino a una punta del 60% verso la metà degli stessi anni 1980. Questo indicatore dà la misura dell’impressionante allargamento del settore pubblico negli ultimi decenni. Sul fronte fiscale, l’esigenza di coprire gli ingenti costi per l’espansione e il mantenimento del Welfare State ha comportato una continua crescita della pressione tributaria, quindi una diminuzione negli investimenti e nei consumi privati, con evidenti effetti negativi sul fronte occupazionale. Oltretutto i maggiori benefìci di questo costosissimo apparato – gravante sulle spalle di tutti, e quindi anche sui ceti più poveri – non sono andati per lo più ai veri bisognosi, bensì hanno alimentato i redditi della classe media, da cui proviene la burocrazia che gestisce il sistema. Si è così preparato un terreno fertile per il fiorire di clientelismo e di corruzione, di cui una classe politica sempre meno rappresentativa del corpo sociale si è servita per la conservazione del proprio potere e dei propri privilegi, con la complicità interessata del mondo sindacale e con il silenzio, quando non il plauso, dei mass media e della cultura di sinistra dominante, nonché il discreto interessato compiacimento dei potentati economico-finanziari. L’interventismo statale, sempre più onnipervasivo e irrispettoso dei propri limiti, ha mortificato la libertà di iniziativa e la capacità di rischiare, provocando una progressiva deresponsabilizzazione delle persone e della società.
Parallelamente alla crescita abnorme di una macchina burocratica sempre più inefficiente e inefficace si è andata così dilatando la spaventosa voragine del debito pubblico, che affligge il bilancio della Repubblica Italiana, congiunta a una pressione fiscale iniqua e insostenibile.
4. Cause della crisi
Il fallimento del Welfare State – come pure dell’economia mista – nella generalità dei paesi in cui è stato adottato è il logico e inevitabile esito di un sistema sociale-politico-economico edificato sulla base di una visione distorta dei compiti dello Stato in ordine al bene comune, a sua volta frutto di una visione antropologica e sociologica erronea.
L’ideologia su cui si fonda il Welfare State è, in radice, di tipo collettivistico, anche se non si raggiungono gli esiti ultimi insiti in tale ideologia, ovvero una totale pianificazione della vita sociale ed economica, con l’abolizione della proprietà privata e della libertà di iniziativa, economica e non. Infatti, molte caratteristiche del Welfare State nei paesi capitalisti ricordano, seppur in forme meno estreme, aspetti tipici dell’organizzazione sociale ed economica dei paesi del socialismo reale.
Come insegna Papa Giovanni Paolo II nell’enciclica Centesimus annus, del 1991, al n. 48, “disfunzioni e difetti nello Stato assistenziale derivano da un’inadeguata comprensione dei compiti propri dello Stato. Anche in questo campo deve essere rispettato il principio di sussidiarietà: una società di ordine superiore non deve interferire nella vita interna di una società di ordine inferiore, privandola delle sue competenze, ma deve piuttosto sostenerla in caso di necessità e aiutarla a coordinare la sua azione con quella delle altre componenti sociali, in vista del bene comune”.
5. Prospettive
L’evoluzione della struttura demografica di certo non viene in aiuto delle già difficili condizioni in cui versa il sistema previdenziale, assistenziale e sanitario, che rappresentano i capitoli di spesa più grevi dello Stato sociale. In assenza di variazioni nel trend demografico attuale e di flussi migratori positivi, entro trent’anni la Repubblica Italiana organizzerà un popolo di vecchi con pochissimi giovani. È facile capire come il sistema pensionistico e sanitario sia destinato al tracollo, a meno di aumentare l’età pensionabile e di ridurre le prestazioni.
Per uscire dall’attuale situazione è necessaria una progressiva riduzione dell’intervento pubblico e la rivalutazione dell’iniziativa privata, sia in campo economico che sociale. È urgente, pena un’inevitabile e prossima crisi fiscale, la cessazione dell’assistenzialismo di Stato e la restituzione alla persona, alla famiglia, ai corpi intermedi, alla società nel suo insieme, di tutte le funzioni che loro competono e che lo Stato ha in modo indebito avocato a sé.
Con la graduale riduzione dell’apparato burocratico, della spesa pubblica e del prelievo fiscale si avrebbero notevoli benefìci per l’intero sistema socio-economico. Le risorse così liberate potrebbero venire investite più efficientemente ed efficacemente dai privati, specie in un contesto socio-economico più libero e flessibile, contribuendo così alla crescita della ricchezza e alla creazione di nuove occasioni di lavoro.
Tuttavia, nonostante l’evidente malessere in cui versa il Welfare State in Italia e le critiche che da più parti vengono a esso mosse, appare molto tenue la speranza di riuscire ad avviarne una radicale riforma. Infatti, una grande parte della popolazione gode i vantaggi del Welfare State senza sostenerne i relativi costi, una vasta nomenklatura su di esso ha costruito la propria fortuna, il ceto politico e sindacale più incline alla logica demagogica e tribunizia fonda il proprio consenso sul patronato di tali interessi. Tutto induce a ritenere che queste componenti si coalizzino per la difesa a oltranza dello status quo, anche a costo di ricorrere a ulteriori giri di vite fiscale, eventualmente travestiti da lotta all’evasione e sostenuti fomentando l’invidia e incentivando la delazione fra le differenti categorie del corpo sociale, secondo la logica del divide et impera. Soltanto un profondo rinnovamento culturale potrà consentire di superare la situazione di stallo in cui versa tale sistema.
Per approfondire: vedi un quadro generale, in Maurizio Ferrera, Il welfare state in Italia: sviluppo e crisi in prospettiva comparata, il Mulino, Bologna 1984; gli aspetti fiscali, in Antonio Martino, Noi e il fisco. La crescita della fiscalità arbitraria: cause, conseguenze, rimedi, con una introduzione di Victor Uckmar, Studio Tesi, Pordenone 1987; quelli di morale sociale, in don Mario Toso S.D.B, Chiesa e Welfare State. Il magistero sociale dei Papi di fronte alla crisi dello Stato del benessere, LAS, Roma 1987; e Idem, Welfare Society. L’apporto dei pontefici da Leone XIII a Giovanni Paolo II, LAS, Roma 1995; una ricostruzione della problematica, nel mio La crisi del Welfare State e dello Stato-imprenditore in Italia, tesi di laurea, anno accademico 1993-1994, relatore professor Sergio Ricossa, correlatori professori Giuseppe Bracco ed Enrico Colombatto, Università degli Studi di Torino.