Ricorre quest’anno il 40esimo anniversario della lettera enciclica Laborem Exercens di S.S. Giovanni Paolo II, pubblicata nel 1981 per commemorare i 90 anni dalla celebre enciclica Rerum Novarum di S.S. Leone XIII. Riproporre la centralità del lavoro come mezzo di crescita e di santificazione, e non solo come fonte di reddito, risulta di rinnovata importanza in un mondo affascinato dal miraggio del “reddito di cittadinanza universale”, e quindi a rischio di subire derive assistenzialistiche e deresponsabilizzanti, contrarie alla dignità della persona e allo sviluppo integrale della società umana.
di Maurizio Milano
L’uomo, mediante il lavoro, deve procurarsi il pane quotidiano e contribuire al continuo progresso delle scienze e della tecnica, e soprattutto all’incessante elevazione culturale e morale della società, in cui vive in comunità con i propri fratelli. E con la parola “lavoro” viene indicata ogni opera compiuta dall’uomo, indipendentemente dalle sue caratteristiche e dalle circostanze, cioè ogni attività umana che si può e si deve riconoscere come lavoro in mezzo a tutta la ricchezza delle azioni, delle quali l’uomo è capace ed alle quali è predisposto dalla stessa sua natura, in forza della sua umanità. Fatto a immagine e somiglianza di Dio stesso nell’universo visibile, e in esso costituito perché dominasse la terra, l’uomo è perciò sin dall’inizio chiamato al lavoro. Il lavoro è una delle caratteristiche che distinguono l’uomo dal resto delle creature, la cui attività, connessa col mantenimento della vita, non si può chiamare lavoro; solo l’uomo ne è capace e solo l’uomo lo compie, riempiendo al tempo stesso con il lavoro la sua esistenza sulla terra. Così il lavoro porta su di sé un particolare segno dell’uomo e dell’umanità, il segno di una persona operante in una comunità di persone; e questo segno determina la sua qualifica interiore e costituisce, in un certo senso, la stessa sua natura».
Così san Giovanni Paolo II (1978-2005) inizia la sua prima enciclica sociale, dedicata al lavoro, inquadrandolo non in modo sociologico o economicistico ma in senso teologico e antropologico. La punizione legata al peccato d’origine riguarda solo la fatica – il sudore del volto – associata al lavoro ma non il lavoro in quanto tale che è dato come vocazione originaria specifica dell’uomo: questi, creato a immagine e somiglianza di Dio, è infatti chiamato a collaborare in modo razionale e volontario, come un sub-creatore, al piano del Creatore dell’universo.
Papa Wojtyla celebra il 90° anniversario dell’Enciclica Rerum Novarum evidenziando i «nuovi sviluppi nelle condizioni tecnologiche, economiche e politiche che […] influiranno sul mondo del lavoro e della produzione non meno di quanto fece la rivoluzione industriale del secolo scorso», con l’obiettivo «di contribuire ad orientare questi cambiamenti perché si avveri un autentico progresso dell’uomo e della società» (n. 1).Il Pontefice afferma che «il lavoro, come problema dell’uomo, si trova al centro stesso di quella “questione sociale”» a cui è rivolto costantemente «l’insegnamento della Chiesa e le molteplici iniziative connesse con la sua missione apostolica» (n.2). «Mentre nel periodo che va dalla Rerum Novarum alla Quadragesimo Anno di Pio XI, l’insegnamento della Chiesa si concentra soprattutto intorno alla giusta soluzione della cosiddetta questione operaia nell’ambito delle singole Nazioni, nella fase successiva esso allarga l’orizzonte alle dimensioni di tutto il globo. La distribuzione sproporzionata di ricchezza e di miseria, l’esistenza di Paesi e di Continenti sviluppati e non, esigono una perequazione e la ricerca delle vie per un giusto sviluppo di tutti. In questa direzione procede l’insegnamento contenuto nell’Enciclica Mater et Magistra di Giovanni XXIII, nella Costituzione pastorale Gaudium et Spes del Concilio Vaticano II e nell’Enciclica Populorum Progressio di Paolo VI» (n.2).
Il Santo Padre ricorda che «la dottrina sociale della Chiesa […] trova la sua sorgente nella Sacra Scrittura, a cominciare dal Libro della Genesi e, in particolare, nel Vangelo e negli scritti apostolici. Essa appartenne fin dall’inizio all’insegnamento della Chiesa stessa, alla sua concezione dell’uomo e della vita sociale e, specialmente, alla morale sociale elaborata secondo le necessità delle varie epoche. Questo patrimonio tradizionale è poi stato ereditato e sviluppato dall’insegnamento dei Pontefici sulla moderna “questione sociale”, a partire dall’Enciclica Rerum Novarum» (n.3).
Giovanni Paolo II si prefigge di mettere in evidenza «il fatto che il lavoro umano è una chiave, e probabilmente la chiave essenziale, di tutta la questione sociale, se cerchiamo di vederla veramente dal punto di vista del bene dell’uomo. E se la soluzione o, piuttosto, la graduale soluzione della questione sociale, che continuamente si ripresenta e si fa sempre più complessa, deve essere cercata nella direzione di “rendere la vita umana più umana”, allora appunto la chiave, che è il lavoro umano, acquista un’importanza fondamentale e decisiva» (n.3).«La Chiesa trova già nelle prime pagine del Libro della Genesi la fonte della sua convinzione che il lavoro costituisce una fondamentale dimensione dell’esistenza umana sulla terra» (n.4). Gli sviluppi realizzati dall’uomo nel corso dei secoli non cambiano la verità perenne secondo la quale «il soggetto proprio del lavoro rimane l’uomo» (n.5). Oltre alla valenza “oggettiva”, cioè relativa al contenuto, il lavoro ha infatti una dimensione “soggettiva”, perché «come persona, l’uomo è […] soggetto del lavoro. Come persona egli lavora, compie varie azioni appartenenti al processo del lavoro; esse, indipendentemente dal loro contenuto oggettivo, devono servire tutte alla realizzazione della sua umanità, al compimento della vocazione ad essere persona, che gli è propria a motivo della stessa umanità». «Le fonti della dignità del lavoro si devono cercare soprattutto non nella sua dimensione oggettiva, ma nella sua dimensione soggettiva», da cui consegue che «prima di tutto il lavoro è “per l’uomo”, e non l’uomo “per il lavoro”» (n.6). In tale prospettiva è evidente come il lavoro non possa essere considerato, contrariamente alle «varie correnti del pensiero materialistico ed economicistico,[…] come una specie di “merce”» (n.7).
«Mediante il lavoro l’uomo non solo trasforma la natura adattandola alle proprie necessità, ma anche realizza se stesso come uomo ed anzi, in un certo senso, “diventa più uomo”», crescendo nella «virtù della laboriosità» (n.9). «Il lavoro è il fondamento su cui si forma la vita familiare, la quale è un diritto naturale ed una vocazione dell’uomo. Questi due cerchi di valori – uno congiunto al lavoro, l’altro conseguente al carattere familiare della vita umana – devono unirsi tra sé correttamente, e correttamente permearsi. Il lavoro è, in un certo modo, la condizione per rendere possibile la fondazione di una famiglia, poiché questa esige i mezzi di sussistenza, che in via normale l’uomo acquista mediante il lavoro. Lavoro e laboriosità condizionano anche tutto il processo di educazione nella famiglia, proprio per la ragione che ognuno “diventa uomo”, fra l’altro, mediante il lavoro, e quel diventare uomo esprime appunto lo scopo principale di tutto il processo educativo”». Viene ribadita la centralità della famiglia, «una comunità resa possibile dal lavoro e la prima interna scuola di lavoro per ogni uomo» (n.10). Dalla famiglia il lavoro dell’uomo si apre a «quella grande società, alla quale l’uomo appartiene in base a particolari legami culturali e storici […che] è anche una grande incarnazione storica e sociale del lavoro di tutte le generazioni. Tutto questo fa sì che l’uomo unisca la sua più profonda identità umana con l’appartenenza alla nazione, ed intenda il suo lavoro anche come incremento del bene comune elaborato insieme con i suoi compatrioti, rendendosi così conto che per questa via il lavoro serve a moltiplicare il patrimonio di tutta la famiglia umana, di tutti gli uomini viventi nel mondo» (n.10).
Il Santo Padre ribadisce il «principio della priorità del “lavoro” nei confronti del “capitale”», conseguenza logica del «primato dell’uomo di fronte alle cose», ricordando che nel processo di produzione «il lavoro è sempre una causa efficiente primaria, mentre il “capitale”, essendo l’insieme dei mezzi di produzione, rimane solo uno strumento o la causa strumentale. Questo principio è verità evidente che risulta da tutta l’esperienza storica dell’uomo». Il capitale stesso, infatti, «è nato dal lavoro e porta su di sé i segni del lavoro umano», che vanno ad arricchire e perfezionare il dono della creazione (n.12). Il Pontefice condanna «l‘errore dell’economismo […che] considera il lavoro umano esclusivamente secondo la sua finalità economica [… ed] è già certamente materialismo pratico […] nel cui quadro il lavoro è stato separato dal capitale e contrapposto ad esso» (n.13).
Il tema del lavoro si collega a quello della proprietà privata, in quanto «la proprietà si acquista prima di tutto mediante il lavoro perché essa serva al lavoro. Ciò riguarda in modo particolare la proprietà dei mezzi di produzione. Il considerarli isolatamente come un insieme di proprietà a parte al fine di contrapporlo nella forma del “capitale” al “lavoro” e ancor più di esercitare lo sfruttamento del lavoro, è contrario alla natura stessa di questi mezzi e del loro possesso». L’ideale verso cui tendere è quello in cui «ognuno, in base al proprio lavoro, abbia il pieno titolo di considerarsi al tempo stesso il “com-proprietario” del grande banco di lavoro, al quale s’impegna insieme con tutti. E una via verso tale traguardo potrebbe essere quella di associare, per quanto è possibile, il lavoro alla proprietà del capitale e di dar vita a una ricca gamma di corpi intermedi a finalità economiche, sociali, culturali: corpi che godano di una effettiva autonomia nei confronti dei pubblici poteri, che perseguano i loro specifici obiettivi in rapporti di leale collaborazione vicendevole, subordinatamente alle esigenze del bene comune, e che presentino forma e sostanza di una viva comunità, cioè che in essi i rispettivi membri siano considerati e trattati come persone e stimolati a prendere parte attiva alla loro vita» (n.14). Il sistema economico migliore è quello in cui l’uomo, in qualche modo «possa conservare la consapevolezza di lavorare “in proprio”» (n.15).
«Se il lavoro …] è un obbligo, cioè un dovere, al tempo stesso esso è anche una sorgente di diritti da parte del lavoratore. Questi diritti devono essere esaminati nel vasto contesto dell’insieme dei diritti dell’uomo, che gli sono connaturali …]. Il rispetto di questo vasto insieme di diritti dell’uomo costituisce la condizione fondamentale per la pace nel mondo contemporaneo […] sia all’interno dei singoli Paesi e società, sia nell’àmbito dei rapporti internazionali» (n.16). I «diritti degli uomini del lavoro» vanno considerati non solo in relazione al «datore di lavoro diretto», ma anche «in relazione al “datore di lavoro indiretto”, cioè all’insieme delle istanze a livello nazionale ed internazionale che sono responsabili di tutto l’orientamento della politica del lavoro», perseguendo l’obiettivo di arrivare a «un’occupazione adatta per tutti i soggetti che ne sono capaci» agendo «contro la disoccupazione, la quale è in ogni caso un male e, quando assume certe dimensioni, può diventare una vera calamità sociale. Essa diventa un problema particolarmente doloroso, quando vengono colpiti soprattutto i giovani, i quali, dopo essersi preparati mediante un’appropriata formazione culturale, tecnica e professionale, non riescono a trovare un posto di lavoro e vedono penosamente frustrate la loro sincera volontà di lavorare e la loro disponibilità ad assumersi la propria responsabilità per lo sviluppo economico e sociale della comunità. L’obbligo delle prestazioni in favore dei disoccupati, il dovere cioè di corrispondere le convenienti sovvenzioni indispensabili per la sussistenza dei lavoratori disoccupati e delle loro famiglie, è un dovere che scaturisce dal principio fondamentale dell’ordine morale in questo campo, cioè dal principio dell’uso comune dei beni o, parlando in un altro modo ancora più semplice, dal diritto alla vita ed alla sussistenza» (n.18). «Il giusto salario diventa in ogni caso la concreta verifica della giustizia di tutto il sistema socio-economico e, ad ogni modo, del suo giusto funzionamento» (n.19).
Il Papa ribadisce poi «il diritto di associarsi, cioè di formare associazioni o unioni, che abbiano come scopo la difesa degli interessi vitali degli uomini impiegati nelle varie professioni. Queste unioni hanno il nome di sindacati»: è importante che concorrano al bene comune e, pur mantenendo il «diritto allo sciopero» come «mezzo estremo», non diventino invece strumenti per attuare «una lotta “contro” gli altri», secondo logiche politiche o partitiche (n.20). Con riferimento alle situazioni di maggiore fragilità, il Santo Padre ribadisce il dovere di integrare nel mondo del lavoro le persone con handicap e il diritto di emigrare per motivi di lavoro, anche se essere costretti a lasciare la propria patria costituisce un male per la comunità di origine, che perde così risorse importanti» (n.23).
Giovanni Paolo II conclude l’enciclica ricordando la «spiritualità del lavoro»: l’uomo «lavorando deve imitare Dio, suo Creatore, perché porta in sé – egli solo – il singolare elemento della somiglianza con lui. L’uomo deve imitare Dio sia lavorando come pure riposando, dato che Dio stesso ha voluto presentargli la propria opera creatrice sotto la forma del lavoro e del riposo» (n.25).
La riproposizione teologica della vocazione originaria specifica dell’uomo come collaboratore di Dio nell’opera della creazione — e quindi della corretta visione antropologica e sociologica che ne conseguono — sono essenziali affinché il lavoro e l’attività economica siano ordinati allo sviluppo umano integrale.
Venerdì, 26 novembre 2021