La Chiesa, però, si attiva grazie al Patriarca dei Maroniti
di PierLuigi Zoccatelli
«Cosa avete fatto per facilitare l’elezione di un presidente e riattivare le istituzioni dello Stato, dopo cinque mesi di vuoto?». Con queste parole il Patriarca dei Maroniti, card. Béchara Boutros Raï O.M.M., si è rivolto mercoledì 5 aprile – in piena Settimana Santa – ai deputati cristiani libanesi, da lui convocati per una giornata di ritiro spirituale a porte chiuse presso l’ostello per pellegrini Bethania ad Harissa, in un estremo tentativo di sbloccare l’impasse in cui è piombata l’elezione presidenziale, giunta ormai all’undicesima seduta elettorale senza esito. Secondo le fonti della Agence Nationale d’Information (ANI), dei 64 deputati cristiani invitati – tanti sono i parlamentari cristiani nell’Assemblea nazionale del Libano, mentre l’altra metà, ugualmente 64 deputati, riguarda musulmani di varie confessioni (sunniti, sciiti e drusi) – al ritiro hanno partecipato 53 onorevoli, fra cui quelli delle Forze Libanesi, del Kataëb, del Movimento Patriottico Libero, del Marada e del Tashnag. Fra le assenze, si segnala quella del vice-presidente del Parlamento, il greco-ortodosso Élias Bou Saab, che assieme ad altri colleghi deputati – come Cynthia Zarazir e Paula Yacoubian– ha boicottato l’incontro per «opposizione al confessionalismo politico».
Dicevamo, l’impasse in cui è piombata l’elezione presidenziale. Perché, in effetti, dal 31 ottobre 2022, data di fine mandato dell’ex presidente della Repubblica libanese Michel Aoun, in conseguenza dei veti incrociati delle varie forze in campo – interne e straniere –, la classe politica libanese non è in grado di eleggere la massima carica istituzionale– che secondo la convenzione costituzionale siglata informalmente come “Patto Nazionale”, nel 1943, dev’essere cristiano maronita –, sicché a svolgerne la funzione ad interim è il primo ministro Najib Miqati, alla guida del governo dal 10 settembre 2021, che proviene da un’importante famiglia sunnita di Tripoli e che è soprattutto noto per essere l’uomo più ricco del Libano, con un patrimonio netto stimato da Forbes di 2,7 miliardi di dollari.
Tutto questo mentre si accelera il processo dissolutivo del «Libano in crisi», come recita il titolo di un articolo analitico del gesuita Gabriel Khairallah– docente all’Università “Saint-Joseph” di Beirut e all’Institut d’Études Politiques di Parigi–, comparso sul numero 4147 (1° aprile 2023) de La Civiltà Cattolica, laddove si osserva che «dal 2019 lo Stato libanese si sta erodendo giorno per giorno, e questo fenomeno continua a estendersi. Nel mentre, la crisi finanziaria che il Paese sta attraversando è considerata dalla Banca Mondiale come una delle peggiori al mondo dal 1850 ad oggi. Nel 2022 oltre l’80% della popolazione viveva al di sotto della soglia di povertà; la sterlina libanese ha perso il 95% del suo valore in tre anni e il Pil è diminuito del 6,7% nel 2019, del 20,3% nel 2020, e del 9,5% nel 2021. Inoltre, i tre fattori che hanno costituito la specificità del modello libanese in Medio Oriente, ossia il sistema bancario, il sistema sanitario e il sistema educativo, stanno progressivamente venendo meno». Le conseguenze socio-economiche sono drammatiche. Tre anni fa, un dollaro era quotato 1.500 lire libanesi: ora si cambia a 110.000 lire. Questo non solo significa la scomparsa del ceto medio, che rendeva il Libano un’eccezione araba, ma configura uno scenario esplosivo, come puntualmente ricorda Khairallah: «Di recente, sono stati recuperati in mare più di 90 cadaveri di libanesi partiti clandestinamente su una barca di migranti dal nord del Paese. È il secondo disastro avvenuto in meno di sei mesi. Esso rivela la portata della disperazione vissuta in Libano da gran parte della popolazione, che preferisce correre enormi rischi, imbarcandosi clandestinamente, piuttosto che rimanere in un Paese incapace di garantire una vita dignitosa».
Prosegue così il calvario del Libano, uscito con grande fatica dalla guerra del 1975-1990, che ha minato tutti gli equilibri del Paese dei cedri – oltre ad avere causato più di 150.000 vittime fra civili e militari e una gigantesca diaspora all’estero –, nel quale sono ospitati tuttora – dal 1948 – centinaia di migliaia di profughi palestinesi e – dal 2011 – quasi due milioni di profughi siriani. Il tutto in un territorio abitato da circa 5.300.000 libanesi, secondo le statistiche del 2023, per quanto sia possibile affidarsi a esse: l’ultimo censimento risale infatti al 1932 e non è stato più aggiornato per motivi di opportunità politica e per non turbare gli equilibri interconfessionali. A quell’epoca la popolazione cristiana rappresentava il 56% dei cittadini e quella musulmana il 44%, mentre attualmente le stime avvalorate dalla sede patriarcale maronita ipotizzano una percentuale di popolazione cristiana attorno al 34% e una conseguente percentuale musulmana vicina al 66%. Dopo la guerra del 1975-1990 è stata la volta della seconda guerra israelo-libanese, nel 2006, che ha causato la morte di migliaia di persone – la maggior parte delle quali civili – e una nuova ondata di profughi libanesi, si stima attorno al milione. E così, punteggiando gli anni a seguire, di crisi in crisi, fino all’esplosione al porto di Beirut del 4 agosto 2020, che ha provocato la morte di 207 persone, le ferite di altre 7.000, determinando altresì gravi danni o la perdita dell’abitazione per quasi 300.000 persone, i due terzi della popolazione della capitale libanese.
Si comprende bene come per fronteggiare questa situazione, esplosiva e insidiosa sotto tutti i punti di vista, sia indispensabile recuperare un minimo di grammatica istituzionale, in modo tale da potere affrontare come si conviene tutti i dossier ineludibili e urgenti. Ciò che allo stato attuale la classe dirigente della nazione non sembra in grado di fare. E così torniamo all’esordio di questo nostro tentativo di lettura degli eventi. Perché è a valle di queste emergenze che il card. Raï ha preso l’inconsueta decisione di convocare i parlamentari cristiani – di ogni confessione (ricordiamo che il Libano ospita 18 confessioni religiose, fra cristiane e musulmane, ciascuna intestataria di specifiche peculiarità, anche istituzionali) –, posizionandosi egli stesso al centro del dossier.
Vi è infatti che gli stessi cristiani, in particolare gli stessi maroniti – la confessione cristiana maggioritaria, per molti versi l’origine e il cuore dell’identità libanese –, non sono stati in grado sin qui d’identificare un candidato sul quale fare convergere la propria fiducia, mentre il grande attore e protagonista della vita politica-confessionale (e militare) del Paese – la componente sciita, per tramite del tandem partitico Hezbollah-Amal – ha ufficializzato il proprio sostegno al leader maronita del Marada, Suleiman Frangieh, sdegnosamente osteggiato dalle due maggiori forze cristiane in Parlamento, le Forze Libanesi e il Movimento Patriottico Libero, ma che sembra godere del placet della Francia, la nazione che nel Trattato di Pace di Versailles (1919), dopo la caduta dell’Impero ottomano, ottenne il protettorato sul Libano. Altri nomi di confessione maronita in corsa per la più alta carica istituzionale, oltre al già menzionato Frangieh – nipote peraltro dell’omonimo Suleiman Frangieh (1910-1992) presidente della Repubblica fra il 1970 e il 1976 –, sono l’attuale presidente del Movimento Patriottico Libero – Gebran Bassil, genero del precedente presidente della Repubblica, Michel Aoun –, che il partito khomeinista Hezbollah vedrebbe con favore (ma non così Amal) ma è però rifiutato dal leader delle Forze Libanesi, Samir Geagea, che al momento sostiene invece la candidatura di Michel Moawad, figlio dell’ex-presidente della Repubblica René Moawad (1925-1989) – ucciso in un attentato diciassette giorni dopo essere stato eletto – e alla guida del blocco parlamentare di opposizione del Rinnovamento.
Come tristemente si vede, un giro di giostra non si nega a nessuno. Ma è il popolo libanese a non potersene permettere di ulteriori. Sicché la domanda rivolta dal Patriarca dei Maroniti ai deputati cristiani – «cosa avete fatto per facilitare l’elezione di un presidente e riattivare le istituzioni dello Stato, dopo cinque mesi di vuoto?» – suona come un appello, forse un ultimo appello prima che sia tardi, questa volta troppo tardi, per la nobile nazione libanese. Implicitamente adottando una terza via, che chiude cioè le porte ai nomi sin qui messi sul tavolo, il card. Raï, dall’alto della sua autorità morale e religiosa, sembra indicare ai politici cristiani del Libano la necessità improrogabile d’identificare un nome che sia l’esito di un’intesa politica allargata, anzitutto fra le componenti cristiane. Per ridare al Paese una visione di cui solo i cristiani possono avere piena consapevolezza: restituire al Libano un senso politico e spirituale alla loro presenza.
Venerdì, 7 aprile 2023