
Dopo aver trattato dei Tropi, il ciclo di articoli sulla Storia della Musica Sacra prosegue con le Sequenze, anch’esse originate in seguito alla Riforma Carolingia.
di Marco Drufuca
Tra le varie novità introdotte nel canto ecclesiastico successivamente alla riforma liturgica voluta da Pipino il Breve (714-768) e Carlo Magno (742-814), spiccano per importanza e interesse storico le Sequenze, che trovarono posto nel proprium della Liturgia dopo il canto dell’Alleluia e prima del Vangelo.
Come nasce il genere della Sequenza?
All’inizio del IX secolo, il termine sequentia era usato per indicare lo jubilus, il lungo vocalizzo (o, per usare il termine corretto, ‘melisma’) che seguiva il canto dell’Alleluia. Tale termine potrebbe in realtà indicare anche nuovi melismi, che rimpiazzavano lo jubilus dopo la seconda ripetizione dell’Alleluia (dunque secondo lo schema: Alleluia – Jubilus – Versus – Alleluia – Sequentia). Ciò che è certo è che con tale parola ci si riferiva a passaggi puramente vocali cantati nel contesto dell’Alleluia.
Negli stessi anni iniziò a diffondersi la pratica di aggiungere testi (prosae) a tali vocalizzi: il Concilio di Meaux dell’845, citato nel precedente articolo sui Tropi, condannava esplicitamente quanti osassero recitare qualche prosa “nelle sequentiae che si sogliono cantare solennemente durante l’Alleluia”.
Un importante sviluppo di tale pratica è poi attestato nella seconda metà del secolo. Nell’884 infatti Notker Balbulus (840-912) termina la scrittura del suo Liber Hymnorum, contenente testi appartenenti al nascente genere e dotato di una prefazione che narra la genesi dell’opera.
Secondo il racconto di Notker, un monaco proveniente da Jumiéges gli avrebbe mostrato il suo antifonario, nel quale “alcuni versi erano stati approntati per le sequentiae”. Notker sarebbe rimasto da un lato affascinato dall’idea, ma, dall’altro, contrariato dalla scarsa qualità dei testi scritti nell’antifonario di Jumiéges; di qui la sua decisione di cimentarsi egli stesso nella scrittura di prosae.
Sebbene il racconto di Notker sembri combaciare con quanto emerso dalle fonti più antiche, l’analisi delle composizioni mostra che con il Liber Hymnorum lo sviluppo della Sequenza aveva raggiunto un nuovo stadio. Infatti, le composizioni contenute nel libro sono divisibili in due macro-categorie: alcuni sono brani brevi e di forma libera, mentre altri, di lunghezza solitamente più estesa, seguono una struttura più rigorosa. Tale struttura prevede la suddivisione del testo in coppie di frasi o periodi: entrambi i membri di questi ‘distici in prosa’ seguono una stessa melodia, ma coppie diverse sono musicate con linee melodiche diverse, creando quindi uno schema di tipo AA-BB-CC-etc. Non sono assenti tuttavia eccezioni a questa regola: spesso infatti compaiono frasi isolate, la cui melodia compare dunque solo una volta, specie (ma non solo) all’inizio e alla fine della sequenza: A-BB-…-YY-Z.
È anche importante rilevare che, mentre ogni composizione del primo gruppo mostra una chiara parentela melodica con un Alleluia gregoriano, molte di quelle appartenenti al secondo non sembrano avere paralleli nel repertorio liturgico. La conclusione più logica è che i testi del primo gruppo possano essere effettivamente considerati come scritti per calzare le melodie dei melismi-sequentiae, mentre le composizioni più lunghe e strutturate, archetipi delle Sequenze che si sarebbero imposte nella Liturgia, devono essere considerate come un genere ormai nuovo e indipendente.
Allo stato attuale, non è dato sapere come si sia arrivati alla genesi delle nuove Sequenze. Potrebbe esserci stato un graduale sviluppo, che, partendo dalle prosae scritte per “riempire” i melismi, avrebbe progressivamente portato a una maggiore strutturazione e a una crescente indipendenza del nuovo genere. Oppure, la genesi delle Sequenze potrebbe essere dovuta alla combinazione tra la pratica delle prosae ed altri modelli poetici e musicali esistenti. Potrebbe essere necessario rivedere l’interpretazione del termine sequentia, che potrebbe non corrispondere necessariamente a melismi presenti nei libri liturgici. Altre ipotesi ancora sono possibili, ipotesi che a oggi non possono essere né smentite né provate con certezza: quello che è certo, è che nell’ultimo quarto del IX secolo il nuovo genere delle Sequenze fece ingresso nel panorama della musica sacra.
Le Sequenze introdussero alcune importanti novità nel panorama estetico dell’epoca. Non si tratta solo di nuovi stili di conduzione delle melodie, ma soprattutto della comparsa della ripetizione come elemento formale. I repertori tradizionali di canto liturgico evitavano accuratamente ogni ripetizione facilmente riconoscibile. Sebbene non fossero estranei a uno stile formulare che necessariamente portava alla ripetizione di segmenti melodici, qualsiasi motivo ricorrente era destinato a dissolversi nel vasto mare di linee sempre diverse della loro melodia “perpetua”. Nelle Sequenze vediamo per la prima volta frasi musicali dai contorni definiti e facilmente intellegibili dall’ascoltatore. Salvo eccezioni, infatti, ciascun elemento melodico è sentito due volte di seguito. Ciò non implica solo una più facile memorizzazione, ma ha anche l’effetto di determinare con chiarezza i confini di ciascun episodio: quando inizia la ripetizione, significa che la frase precedente si è conclusa.
Si potrebbe obiettare a ciò che di melodie ripetute se ne trovano in abbondanza nel repertorio di Inni scritti sul modello ambrosiano, e tuttavia tra i due casi permane una differenza radicale: nell’Inno la linea melodica è una, e si ripete uguale a se stessa per tutte le strofe. Nella Sequenza, la melodia varia continuamente, non solo nei suoi contorni ma, almeno nei primi secoli, anche in lunghezza, in quanto le coppie di frasi hanno sempre numero diverso di sillabe.
Nelle Sequenze, dunque, non si ripete continuamente la stessa melodia, come negli Inni, ma nemmeno la si lascia fluire indefinitamente, come invece avveniva nel canto gregoriano e nei repertori liturgici più antichi. Per la prima volta varietà e unità sono perseguite simultaneamente, e il principio della forma, inteso come elemento unificatore di una molteplicità in sé eterogenea, termine fondamentale per tutta la Storia della Musica Occidentale, trova qui il suo stadio embrionale.
Rimane un ultimo quesito da porre: cosa ha permesso che le Sequenze entrassero a fare parte della Liturgia della Chiesa? Di nuovo, mancano i documenti per dare una risposta certa. Tuttavia, tra le ipotesi avanzate è interessante quella formulata da Nancy van Deusen. La studiosa vede nelle Sequenze una sorta di “ponte”, o, per usare i suoi termini, di “copula”, tra l’Antico e il Nuovo Testamento. A sostenere tale affermazione concorrerebbero una moltitudine di indizi di natura diversa: l’analisi testuale; quella melodica; la parentela con i Salmi, considerati il libro “ponte” tra i due testamenti per eccellenza; la collocazione dopo l’Alleluia (termine ebraico) e il suo Versus (tratto dai Salmi) e prima del Vangelo (testo neotestamentario per eccellenza); il valore allegorico e anagogico dei testi; perfino l’impaginazione grafica con la quale si iniziò a segnalare la sequenza all’interno dei libri liturgici. Secondo questa lettura, le Sequenze avrebbero avuto il compito di significare, all’interno della Liturgia, l’unità tra l’Antico e il Nuovo Testamento, tra l’Antica e la Nuova Alleanza, fungendo da “transizione” tra il giubilo veterotestamentario dell’Alleluia e la Nuova Alleanza annunciata nei Vangeli.
Sabato, 14 giugno 2024