Da “Il Foglio” del 18 gennaio 2017. Foto da Altervista
Ancora una volta prendo le mosse da Anis Amri, l’autore della strage di Berlino morto all’antivigilia di Natale nel conflitto a fuoco di Sesto S. Giovanni. Un segmento della sua storia incrocia l’Italia: prima ancora della collocazione in un Cie, dal quale viene rimesso in libertà con un decreto di espulsione non eseguito, Amri trascorre qualche anno in carcere per espiare una condanna per reati commessi poco dopo lo sbarco, e la Polizia penitenziaria ne osserva il comportamento e lo segnala al nostro sistema di sicurezza. Non è bastato, per carenze che riguardano il nostro meccanismo delle espulsioni e la trattazione di questo tipo di segnalazioni da parte di altri Stati europei, in primis la Germania. Di entrambe le lacune si è molto discusso nei giorni passati, e l’attuale ministro dell’Interno sta muovendo passi importanti nella direzione di rendere effettive le espulsioni.
Ma si sono anche moltiplicati i reportage sui rischi del reclutamento jihadista all’interno delle carceri, partendo dai casi concreti finora emersi. Che cosa possiamo fare di meglio e di più per circoscrivere quest’area di pericolo? Intanto descrivere l’entità del fenomeno: al 31 dicembre 2016 su un totale di 54.653 detenuti nei penitenziari italiani, ben 18.621 erano stranieri. La ripartizione per Stati di provenienza vede al primo posto i cittadini del Marocco, 3.283, poi della Romania, 2.720, dell’Albania, 2.429, della Tunisia, 1.998, dell’Egitto, 705, dell’Algeria, 408. Per religione dominante, provengono da aree islamiche oltre 12.000 reclusi. La stima dei musulmani praticanti è di circa 8.000, quelli sottoposti a osservazione sono quasi 400, con differenti livelli di radicalizzazione: da chi manifesta scarsi indicatori esterni a chi fa individuare un profilo più deciso, a chi – era il caso di Amri – compie atti che non lasciano spazio a equivoci , per es. gioire alla notizia di attentati nei confronti di “infedeli”. Colpiscono l’entità del numero e la potenzialità diffusiva.
Queste cifre si possono abbattere? Gli Stati che appartengono all’Ue condividono una normativa comunitaria che permette – a determinate condizioni – il trasferimento del detenuto nel carcere della Nazione di provenienza. Con gli Stati extra Ue esistono dei trattati bilaterali: alcuni prevedono questa possibilità – è il caso dell’Albania -, altri no. E’ un terreno di obbligatoria intensificazione del lavoro del governo nazionale, chiamato a orientarsi anzitutto verso le Nazioni con prevalenza musulmana: se nel giro di poco i detenuti marocchini, tunisini, egiziani e algerini proseguissero l’espiazione della pena ricevuta in Italia negli Stati di rispettiva provenienza, il livello di rischio del nostro circuito penitenziario calerebbe in modo significativo, e non solo esso. Quali sono gli ostacoli? Intanto la notevole difficoltà a stringere e a rendere operativi gli accordi bilaterali: concludere un accordo non significa che poi funzioni realmente, se nel termine “funzionamento” rientrano tempi accettabili; non serve a nulla la decisione di un giudice tunisino di riconoscimento della sentenza di un giudice italiano a espiazione di pena conclusa, o quasi.
Altri ostacoli. Anzitutto la giurisprudenza della Corte europea dei diritti, che da tempo autorizza il trasferimento di detenuti da uno Stato europeo ad altro Stato solo a condizione che quest’ultimo garantisca un trattamento non qualificabile come inumano; nella categoria dell’“inumano” vi è pure uno spazio minimo per detenuto inferiore a 3 mq. In Italia la Cassazione rende più rigida questa previsione, perché calcola i 3 mq al netto di suppellettili o di oggetti in realtà collocati nella cella a vantaggio del recluso. Con un orientamento del genere, non sancito da norme europee ma elaborato per via di interpretazione, riesce già difficile il trasferimento del detenuto all’interno dell’Ue: la Romania, l’Ungheria e perfino l’Italia per questo hanno ricevuto richiami dalla Corte EDU; figuriamoci verso Stati al di fuori dell’Ue. Evocare una Guantanamo europea può servire a provocare una discussione, ma quello sintetizzato – piaccia o no – è il quadro giuridico nel quale siamo inseriti, e non è quello degli USA. Quando nelle istituzioni europee si discute di prevenzione del terrorismo, è ormai ineludibile valutare con serietà e in fretta se quest’equilibrio fra sicurezza e garanzie soddisfa veramente; e quindi chiedersi se fra Guantanamo e la situazione attuale c’è una via intermedia efficace e realistica; se, per es., è più “inumano” che un detenuto occupi una cella di 2,8 mq netti o che 12 persone siano uccise in un mercatino natalizio. Nel frattempo l’Italia – adusa a fare da sé – non ha alternative alla complicata strada degli accordi, accompagnata da qualche sostegno finanziario per realizzare negli Stati di trasferimento dei detenuti strutture carcerarie più vicine a standard civili.
In più. Perché mai uno straniero che termina l’espiazione di una pena e va espulso deve transitare in un Cie? Come mai l’essere stato in carcere ne ha impedito la certa identificazione? Accade perché, pur potendosi oggi utilizzare il profilo del dna per l’accertamento dell’identità, i tecnici disponibili nel nostro circuito penitenziario sono pochi e non ce la fanno. Accade perché si attende la conclusione della detenzione per attivare i contatti con gli Stati di provenienza, cui inviare i soggetti da espellere. Non è un problema di norme, ma di risorse finanziarie da incrementare e di azione di governo da rendere più coordinata. Nelle nostre strutture penitenziarie si sta intensificando il lavoro di formazione degli operatori per una conoscenza più adeguata del modo di pensare dei sospetti terroristi e della lingua che parlano. Pure questo esige “a regime” professionalità e investimenti.
E’ ovvio che si parla solo di un segmento del problema, che chiama in causa la prevenzione e il contrasto propriamente criminali. La voce carcere non va enfatizzata come se fosse esclusiva: nelle storie di soggetti pronti a compiere atti di terrorismo oltre ai contatti in carcere sono emersi la frequentazione di alcune moschee e di alcuni centri culturali islamici. Il nostro sistema non è all’anno zero: ma la vicenda Amri conferma che ogni lacuna, grande o piccola, può avere esiti letali.
Alfredo Mantovano