Pericoli e vittorie dell’athleta Christi che si appresta a pregare
di Michele Brambilla
«Seguendo la falsariga del Catechismo», annuncia Papa Francesco all’inizio dell’udienza generale del 19 maggio, «in questa catechesi ci riferiamo all’esperienza vissuta della preghiera, cercando di mostrarne alcune difficoltà molto comuni, che vanno identificate e superate». Il Papa si pone, quindi, come autentico “medico delle anime”, pronto a dispensare consigli e rimedi molto pratici per affrontare alcune difficoltà che insorgono quando ci si accinge a pregare.
«Il primo problema che si presenta a chi prega è la distrazione. (cfr CCC, 2729). Tu incominci a pregare e poi la mente gira, gira per tutto il mondo», riconosce il Santo Padre. Certo, la preghiera è fatta anche per portare al Signore i dubbi, i problemi, le ansietà di ogni giorno, ma l’elenco potrebbe assillarci e sormontarci proprio mentre cerchiamo una maggiore concentrazione. Come ricorda il Papa, accade anche agli atleti. Il cattolico, vero athleta Christi secondo la celebre metafora paolina (1Cor 9,24-27), ripetuta da sant’Ambrogio (340-397) nel De Sacramentis, sa che «le distrazioni non sono colpevoli, però vanno combattute. Nel patrimonio della nostra fede c’è una virtù che spesso viene dimenticata, ma che è tanto presente nel Vangelo. Si chiama “vigilanza”. E Gesù lo dice tanto: “Vigilate. Pregate”». Significa prestare attenzione a quello che si fa, dominare i pensieri e concentrarsi sull’obbiettivo: cercare il Signore e ascoltare ciò che Lui ha da dire a noi.
La distrazione può essere determinata da un momento di aridità spirituale. «Il Catechismo», prosegue il Pontefice, «lo descrive in questo modo: “Il cuore è insensibile, senza gusto per i pensieri, i ricordi e i sentimenti anche spirituali. È il momento della fede pura, che rimane con Gesù nell’agonia e nella tomba” (n. 2731). L’aridità ci fa pensare al Venerdì Santo, alla notte e al Sabato Santo, tutta la giornata: Gesù non c’è, è nella tomba; Gesù è morto: siamo soli. E questo è il pensiero-madre dell’aridità», che spesso non ha una causa individuabile. Ad ogni modo, meglio non arrendersi: «il cuore dev’essere aperto e luminoso, perché entri la luce del Signore. E se non entra, bisogna aspettarla con speranza», che, come è noto, è una delle tre virtù teologali.
Talvolta a pesare è l’accidia, che è «una forma di depressione dovuta al rilassamento dell’ascesi, a un venire meno della vigilanza, alla mancata custodia del cuore» (CCC, 2733). Ci si lascia scoraggiare dal male che vediamo attorno, ed «è uno dei sette “vizi capitali” perché, alimentato dalla presunzione, può condurre alla morte dell’anima». Si combatte l’accidia ripetendo: «“Anche se Tu, Dio mio, sembri far di tutto perché io smetta di credere in Te, io invece continuo a pregarti”. I credenti non spengono mai la preghiera! Essa a volte può assomigliare a quella di Giobbe, il quale non accetta che Dio lo tratti ingiustamente, protesta e lo chiama in giudizio. Ma, tante volte, anche protestare davanti a Dio è un modo di pregare».
L’uomo comune, in genere, non è dotato della proverbiale pazienza di Giobbe, ma può far sua la dinamica della domanda infantile: «non dimenticare la preghiera del “perché?”: è la preghiera che fanno i bambini quando incominciano a non capire le cose e gli psicologi la chiamano “l’età dei perché”, perché il bambino domanda al papà: “Papà, perché …? Papà, perché …? Papà, perché …?”. Ma stiamo attenti: il bambino non ascolta la risposta del papà. Il papà incomincia a rispondere e il bambino arriva con un altro perché. Soltanto vuole attirare su di sé lo sguardo del papà; e quando noi ci arrabbiamo un po’ con Dio e incominciamo a dire dei perché, stiamo attirando il cuore di nostro Padre verso la nostra miseria, verso la nostra difficoltà, verso la nostra vita». Ed Egli, come è accaduto a Giobbe, ad un certo punto risponderà e ci donerà il centuplo di quanto ci aspettavamo.
Giovedì, 20 maggio 2021