I cattolici si dovrebbero distinguere per l’amore vicendevole. Basandosi su questo amore, i santi, ricorda il Papa, hanno edificato le loro stesse nazioni
di Michele Brambilla
La mattina del 15 maggio Papa Francesco presiede la Messa di canonizzazione dei santi Titus Brandsma (1881-1942), Lazzaro detto Devasahayam (1712-52), César de Bus (1544-1607), Luigi Maria Palazzolo (1827-86), Giustino Maria Russolillo (1891-1955), Charles de Foucauld (1858-1916), Maria Rivier (1768-1838), Maria Francesca di Gesù Rubatto (1844-1904), Maria di Gesù Santocanale (1852-1923), Maria Domenica Mantovani (1862-1934).
«Abbiamo ascoltato» come Vangelo del giorno «alcune parole che Gesù consegna ai suoi prima di passare da questo mondo al Padre, parole che dicono che cosa significa essere cristiani: “Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri” (Gv 13,34). Questo», evidenzia il Santo Padre nell’omelia, «è il testamento che Cristo ci ha lasciato, il criterio fondamentale per discernere se siamo davvero suoi discepoli oppure no: il comandamento dell’amore».
Un amore dettato da un fatto incontrovertibile: è stato Dio ad amarci per primo, fino a dare la vita per noi. «Fratelli, sorelle, che questo annuncio sia centrale nella professione e nelle espressioni della nostra fede: “non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi” (1 Gv 4,10). Non dimentichiamolo mai. Al centro non ci sono la nostra bravura, i nostri meriti, ma l’amore incondizionato e gratuito di Dio, che non abbiamo meritato. All’inizio del nostro essere cristiani non ci sono le dottrine e le opere, ma lo stupore di scoprirsi amati, prima di ogni nostra risposta. Mentre il mondo vuole spesso convincerci che abbiamo valore solo se produciamo dei risultati, il Vangelo ci ricorda la verità della vita: siamo amati», sottolinea il Pontefice, che ricorda come «questa verità ci chiede una conversione sull’idea che spesso abbiamo di santità. A volte, insistendo troppo sul nostro sforzo di compiere opere buone, abbiamo generato un ideale di santità troppo fondato su di noi, sull’eroismo personale, sulla capacità di rinuncia, sul sacrificarsi per conquistare un premio. È una visione a volte troppo pelagiana della vita, della santità. Così abbiamo fatto della santità una meta impervia, l’abbiamo separata dalla vita di tutti i giorni invece che cercarla e abbracciarla nella quotidianità, nella polvere della strada, nei travagli della vita concreta e, come diceva Teresa d’Avila alle consorelle, “tra le pentole della cucina”».
Dio ci ha amato al di sopra di ogni nostro merito personale. La nostra risposta deve essere «servire, cioè non anteporre i propri interessi; disintossicarsi dai veleni dell’avidità e della competizione; combattere il cancro dell’indifferenza e il tarlo dell’autoreferenzialità, condividere i carismi e i doni che Dio ci ha donato. Nel concreto, chiedersi “che cosa faccio per gli altri?”». «E poi dare la vita, che non è solo offrire qualcosa» o ricercare il martirio (tre dei neo-canonizzati, ovvero Titus Brandsma, Lazzaro Devasahayam e Charles de Foucault, sono martiri), «ma donare sé stessi» in tutto ciò che si fa abitualmente.
«I nostri compagni di viaggio, oggi canonizzati, hanno vissuto così la santità: abbracciando con entusiasmo la loro vocazione – di sacerdote, alcuni, di consacrata, altre, di laico – si sono spesi per il Vangelo, hanno scoperto una gioia che non ha paragoni e sono diventati riflessi luminosi del Signore nella storia», come il Papa ribadisce al Regina Coeli: «è bello constatare che, con la loro testimonianza evangelica, questi Santi hanno favorito la crescita spirituale e sociale delle rispettive Nazioni e anche dell’intera famiglia umana». La professione di fede cattolica, quando non è qualcosa che rimane chiuso nel cuore del singolo professante, si traduce inevitabilmente in una dottrina sociale, con tutto quello che ne consegue in termini di testimonianza pubblica e trasformazione della realtà esistente. «Mentre tristemente nel mondo crescono le distanze e aumentano le tensioni e le guerre, i nuovi Santi ispirino», allora, «soluzioni di insieme, vie di dialogo, specialmente nei cuori e nelle menti di quanti ricoprono incarichi di grande responsabilità e sono chiamati a essere protagonisti di pace e non di guerra», dice pensando in particolare all’Ucraina.
Lunedì, 16 maggio 2022