di Michele Brambilla
La V domenica di Quaresima è un momento di “cerniera” perché introduce «[…] negli ultimi giorni della vita di Gesù», come ricorda lo stesso Papa Francesco all’inizio dell’Angelus del 18 marzo. Non a caso, nella forma straordinaria del rito romano questa è definita I domenica di Passione ed è contrassegnata sia dai paramenti neri sia dalle cosiddette “velazioni”: le statue dei santi e della Madonna vengono celate dietro tendaggi viola, affinché lo sguardo dei fedeli si concentri unicamente sul Christus patiens.
I verbi che il Papa sottolinea del Vangelo del giorno (cfr. Gv 12, 20-33) sono proprio quelli che riguardano il senso della vista. Alcuni discepoli vengono infatti interpellati da alcuni greci che dicono «vogliamo vedere Gesù» (Gv 12, 21). «La reazione di Gesù è sorprendente. Egli non risponde con un “sì” o con un “no”, ma dice: «È venuta l’ora che il Figlio dell’uomo sia glorificato» (v. 23). Queste parole, che sembrano a prima vista ignorare la domanda di quei greci, in realtà danno la vera risposta, perché chi vuole conoscere Gesù deve guardare dentro alla croce».
Il Crocifisso in un Paese tradizionalmente cattolico come l’Italia non è un oggetto ignoto: domina la sommità delle chiese e delle antiche torri civiche, decora la sommità dei monti, compare spesso negli edifici pubblici, contrassegna i crocicchi di molte strade, senza contare le immagini religiose appese nelle case anche dei cristiani meno praticanti. Tuttavia spesso lo si guarda distrattamente, alcune volte persino con ostilità, senza coglierne il significato profondo. Il Papa allora chiede: «Come guardo io il Crocifisso? Come un’opera d’arte, per vedere se è bello o non bello? O guardo dentro, entro nelle piaghe di Gesù fino al suo cuore? Guardo il mistero del Dio annientato fino alla morte, come uno schiavo, come un criminale?».
Lo sguardo del credente deve puntare all’essenziale, ovvero al «[…] dinamismo del chicco di grano» visibile nella Passione e illustrato dal Vangelo secondo san Giovanni: «se il chicco di grano, caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto» (Gv 12, 24). Non è una dinamica di autodistruzione nichilista: nasconde il mistero della vera fecondità. Osserva il Pontefice: «[…] siamo chiamati a fare nostra questa legge pasquale del perdere la vita per riceverla nuova ed eterna. E che cosa significa perdere la vita? […] Significa pensare di meno a sé stessi, agli interessi personali, e saper “vedere” e andare incontro ai bisogni del nostro prossimo, specialmente degli ultimi».
La salvezza non si ottiene infatti macerandosi in privato, sperando magari di fare anche un po’ pietà a parenti e amici: in questo modo si alimenta solo il proprio narcisismo individualista. «Compiere con gioia opere di carità verso quanti soffrono nel corpo e nello spirito è il modo più autentico di vivere il Vangelo, è il fondamento necessario perché le nostre comunità crescano nella fraternità e nell’accoglienza reciproca». L’altro è l’anello che congiunge a un Dio che è comunione al proprio stesso interno (è il mistero della Trinità) e che nella Passione dimostra fino a che punto ami «[…] l’uomo che Lui stesso aveva creato» (Messale Ambrosiano, preghiera eucaristica V).