La natalità crolla anche negli Stati Uniti: i figli sono visti come un sacrificio, che costringe in particolar modo le donne a rinunciare ad altro: prospettive (illusioni?) di carriera e reddito, maggiore tempo libero, altre opportunità; le donne scelgono quindi di sposarsi sempre più tardi, o di non sposarsi affatto, e comunque di non avere figli, pur potendoselo permettere economicamente. Ciò insegna che la natalità non si riprenderà agendo solo sulla pur necessaria revisione della fiscalità familiare, negli Usa e a maggior ragione in Italia e nella vecchia Europa: occorre innanzitutto una “nuova narrazione”, a favore della famiglia e della natalità.
di Maurizio Milano
Il problema più grave che affligge i Paesi sviluppati è il crollo della natalità, che si sta portando pressoché ovunque al di sotto del “tasso di sostituzione” che consentirebbe di mantenere la popolazione costante in assenza di saldi migratori: tale numero è pari a circa 2,1 figli per donna. I principali Paesi industriali sono tutti abbondantemente al di sotto di tale livello (in Italia siamo a ridosso di 1,25), e la tendenza è in ulteriore ribasso, addirittura in accelerazione dopo la crisi sanitaria. Anche gli Stati Uniti, che fino a quindici anni orsono avevano una natalità equilibrata, a partire dalla Grande Crisi Finanziaria del 2007-2009 hanno iniziato ad allinearsi al resto del mondo, subendo un forte calo del “tasso di fecondità totale”, sceso al di sotto di 1,7 figli per donna e quindi insufficiente ad assicurare il ricambio generazionale. Una spiegazione superficiale potrebbe vedere un rapporto di causa-effetto: c’è stata la crisi economica e finanziaria, quindi le famiglie non hanno più fatto figli. La crisi ha certamente contribuito al declino nella fase iniziale, ma nonostante la forte ripresa economica dopo il 2010, e il fatto che i redditi statunitensi siano risaliti a livelli record pre-CoViD, garantendo standard di vita migliori di quanto non fossero nei decenni precedenti, la natalità ha continuato a diminuire. Neppure si sono registrati effetti correlati al variare negli anni delle policy governative in campo demografico.
In un paper pubblicato sul Journal of Economic Perspectives dagli economisti Melissa S. Kearney, Phillip B. Levine e Luke Pardue si analizzano le cause del forte declino nei tassi di fecondità negli Stati Uniti tra 2007 e 2020, a partire cioè dalla Grande Recessione sviluppatasi dopo il collasso dei mutui sub-prime e il fallimento della Banca d’affari statunitense Lehman Brothers. Il crollo della natalità ha riguardato particolarmente le donne di origine ispanica, che hanno iniziato ad assumere i medesimi stili di vita delle proprie coetanee di altra etnia e cultura. L’evidenza empirica, tuttavia, mostra come la riduzione della fertilità statunitense sia stata generalizzata, perché ha riguardato gruppi differenti di donne, dalle teenager alle donne bianche con elevato livello di istruzione. Anche il “tasso di nuzialità” è collassato. Una delle correlazioni più certe è quella che lega la fertilità al matrimonio, perché una donna sposata tende ad avere mediamente circa il doppio di figli rispetto a una donna nubile: di conseguenza, se i matrimoni diminuiscono, o se vengono rinviati a un’età sempre più avanzata, si può essere certi che anche la natalità subirà un contraccolpo negativo. E questo è quanto puntualmente accaduto negli Stati Uniti e, da molti anni prima, anche in Italia.
La ricerca mette in evidenza come una delle cause che incidono negativamente sulla natalità, ben più dei costi direttamente legati al mantenimento e all’educazione dei figli, riguardi le “opportunità” di vita a cui occorre rinunciare – vero in modo specifico per le donne – per mettere su famiglia: dal prolungamento dell’istruzione alle maggiori possibilità di carriera, di reddito e di tempo libero. Da un punto di vista meccanico, la diminuzione della natalità può essere quindi attribuita, secondo i ricercatori, a un «cambio di priorità» nella popolazione femminile, in particolare delle donne più giovani, che appaiono meno propense a investire tempo, fatica e risorse per accogliere ed educare i figli. Il calo della natalità, infatti, è dovuto in particolare alla mancanza di nuovi figli primogeniti più che non alla mancanza di figli successivi al terzo: non sono quindi le famiglie numerose che hanno cessato di crescere, ma sono le nuove famiglie che non hanno iniziato a procreare. Gli statunitensi, insomma, su questo punto iniziano ad assomigliare sempre più a noi italiani ed europei, e non è una buona notizia.
L’analisi dei tre economisti si conclude con una riflessione sulle possibili azioni da intraprendere. Se le cause profonde sono di tipo culturale, e non economico-finanziario, come risulta oramai dimostrato, per invertire la tendenza non ci si potrà limitare a interventi pubblici riequilibrativi. Non vi sono dubbi sul fatto che i figli siano un costo: addirittura, in una società avanzata, ragionando in termini di fredda contabilità possono apparire un investimento “a fondo perduto”, per lo meno per la famiglia. Ciò nonostante, non sono i Paesi più ricchi e le classi sociali più agiate a dare vita a famiglie numerose: accade piuttosto l’inverso, tant’è vero che, al crescere delle condizioni economiche, in genere diminuisce il numero di figli per famiglia. È certamente auspicabile, e doverosa, una revisione della fiscalità che tenga conto della contribuzione al bene comune delle famiglie con figli, considerando la famiglia come “soggetto economico”: non possiamo però illuderci che un aggiustamento fiscale sia sufficiente, da solo, a spingere le persone a mettere al mondo dei figli. È più facile scoraggiare la natalità, infatti, che non promuoverla, come insegna anche l’esperienza cinese. Occorre invece un “cambio di paradigma”, una nuova narrazione – per usare un’espressione alla moda – a favore del matrimonio, della famiglia naturale e della vita.
All’analisi degli economisti statunitensi, che si ferma al 2020, vorrei aggiungere una considerazione sugli sviluppi degli ultimi tre anni. Siamo immersi in uno stato permanente di incertezza e paura, alimentato da una comunicazione massmediatica spesso ossessiva e allarmistica. Prima, con la crisi sanitaria; ora, con il millenarismo climatico che sta diffondendo, a partire dagli Stati Uniti, una nuova patologia: l’eco-ansia. Se il pianeta è davvero prossimo all’apocalisse, che senso ha avere figli? In Occidente c’è chi afferma che «il dono d’amore più grande che puoi fare al tuo primo figlio è non averne un altro», giacché «per salvare il solo pianeta che hai devi fare un solo figlio» (Cfr. Bridget McGovern Llewellyn, One Child One Planet, ed. Emerald Shamrock Press, Phoenix 2009). Occorrerebbe superare il «prenatalismo», cioè «la pressione sociale ad avere figli», e passare dall’«antropocentrismo» all’«eco-centrismo», e così ridurre la dimensione delle famiglie e i consumi per combattere «le ingiustizie sociali verso la giustizia sociale» (Cfr. Population Balance, Shrink Toward Abundance). Per contrastare il cambiamento climatico e salvare il mondo dall’imminente catastrofe ecologica, è quindi necessario – in una sorta di eresia catara di ritorno – «rifiutarsi di procreare» (Cfr. The Birthstrike Movement).
Le giovani generazioni sono quelle più a rischio di cadere vittime di tale propaganda, aggravando così la tendenza a non avere figli. Mentre il mondo lotta contro la Co2 ci si dimentica dell’evidenza empirica delle conseguenze tragiche, anche sul piano economico e sociale, del collasso demografico: se non altro a causa dei costi pensionistici, sanitari e assistenziali che aumentano per via della crescita della popolazione anziana e che vengono scaricati su una “Pel” (Popolazione in età lavorativa) in contrazione continua a causa appunto della denatalità, man mano che le “piramidi” demografiche si trasformano in “funghi”, con sempre più anziani da sostenere e sempre meno giovani per farlo. Senza una ripresa delle nascite il modello sociale, economico e politico dei Paesi sviluppati è inevitabilmente destinato a logorarsi sempre più, fino a implodere. E non si creda che si tratti di questioni “religiose”: su questo si gioca il nostro futuro.
In conclusione, se le cause profonde della denatalità sono lato sensu di tipo culturale, ogni azione che non agisca anche – e soprattutto – a tale livello è destinata inevitabilmente all’insuccesso. Non possiamo illuderci: non saranno gli aiuti economici a risollevare le famiglie; saranno, semmai, le famiglie a risollevare l’economia.
Venerdì, 25 agosto 2023