Di Francesco Ognibene da Avvenire del 30/11/2019
Il «”diritto di morire”» che alcune «pronunce» giurisprudenziali «inventano» è «privo di qualsiasi fondamento giuridico». L’ha detto ieri il Papa nell’udienza ai giuristi del Centro studi Livatino, intitolato al magistrato ucciso a 38 anni il 21 settembre 1990 e definito da Giovanni Paolo II – come ha ricordato lo stesso Francesco – «martire della giustizia e indirettamente della fede». Il Papa ha ricordato che «in una conferenza» sull’eutanasia il magistrato oggi avviato agli altari «faceva questa osservazione: “Se l’opposizione del credente a questa legge si fonda sulla convinzione che la vita umana […] è dono divino che all’uomo non è lecito soffocare o interrompere, altrettanto motivata è l’opposizione del non credente che si fonda sulla convinzione che la vita sia tutelata dal diritto naturale, che nessun diritto positivo può violare o contraddire, dal momento che essa appartiene alla sfera dei beni ’indisponibili’, che né i singoli né la collettività possono aggredire”». Una citazione nella quale Francesco invita a notare argomenti che «sembrano distanti dalle sentenze che in tema di diritto alla vita vengono talora pronunciate nelle aule di giustizia, in Italia e in tanti ordinamenti democratici. Pronunce per le quali l’interesse principale di una persona disabile o anziana sarebbe quello di morire e non di essere curato; o che – secondo una giurisprudenza che si autodefinisce “creativa” – inventano un “diritto di morire” privo di qualsiasi fondamento giuridico, e in questo modo affievoliscono gli sforzi per lenire il dolore e non ab- bandonare a sé stessa la persona che si avvia a concludere la propria esistenza».
Per il Santo Padre, Livatino colse anche «i segni di quel che sarebbe emerso con maggiore evidenza nei decenni seguenti, non soltanto in Italia, cioè la giustificazione dello sconfinamento del giudice in ambiti non propri, soprattutto nelle materie dei cosiddetti “nuovi diritti”, con sentenze che sembrano preoc- cupate di esaudire desideri sempre nuovi, disancorati da ogni limite oggettivo». Un incrocio tra questioni giuridiche ed etiche di grande attualità, che sfida in particolare la coscienza dei credenti: come comportarsi davanti ai casi di giurisprudenza “creativa” che incidono su temi delicati come la vita umana?
È la stessa figura di Livatino a proporre «un esempio luminoso» per capire «come l’obbedienza alla Chiesa possa coniugarsi con l’obbedienza allo Stato, in particolare con il ministero, delicato e importante, di far rispettare e applicare la legge». Un impegno che va vissuto «approfondendo le ragioni della coerenza fra le radici antropologiche, l’elaborazione dei principi e le linee di applicazione nella vita quotidiana».
È la terza volta in tre mesi che il Papa interviene sull’eutanasia. Parlando agli oncologi italiani, il 2 settembre, Francesco aveva detto che «la pratica dell’eutanasia, divenuta legale già in diversi Stati, solo apparentemente si propone di incentivare la libertà personale; in realtà essa si basa su una visione utilitaristica della persona, la quale diventa inutile o può essere equiparata a un costo, se dal punto di vista medico non ha speranze di miglioramento o non può più evitare il dolore». Pochi giorni dopo, il 20 settembre, alla Federazione nazionale dei medici aveva spiegato che «si può e si deve respingere la tentazione – indotta anche da mutamenti le- gislativi – di usare la medicina per assecondare una possibile volontà di morte del malato, fornendo assistenza al suicidio o causandone direttamente la morte con l’eutanasia. Si tratta di strade sbrigative di fronte a scelte che non sono, come po- trebbero sembrare, espressione di libertà della persona, quando includono lo scarto del malato come possibilità, o falsa compassione di fronte alla richiesta di essere aiutati ad anticipare la morte».
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