
Da Huffingtonpost di Alessandro Barbano del 19/04/2021
Che cos’è questo grido di dolore, che squarcia la scorza di un Paese fragile, in fila per una fiala di siero? È un urlo coperto dal fragore di un corpo, quello di Giovanna Boda, dirigente del Ministero dell’Istruzione indagata per corruzione, che si getta dal secondo piano di uno studio forense di Prati e che ora è in fin di vita. Bisogna mettersi in ascolto, con disposizione d’animo, capacità di immedesimazione e coscienza di mistero, per sentire quanto questo strepito è insieme stentoreo e disperato. Quanto ci racconta il nostro vivere come un eterno e feroce stato di natura, dove vale solo la legge del più forte, e perfino la giustizia, a dispetto delle migliori intenzioni, si confonde con la vendetta.
Ma bisogna prima di tutto fare come Ulisse. Tapparsi le orecchie al rumore di fondo, che ci porta lontano dal cuore delle cose con mille trappole, disseminate sul percorso della verità, e altrettanti pregiudizi, che rischiano di farci cadere dentro.
Nell’inchiesta di Roma la prima trappola ha il nome della preda: si chiama talpa. Qual è la talpa, si chiede Stefano Vladovich sul Giornale, che ha fatto uscire il decreto di perquisizione della procura? Perché questo è il giallo nel giallo. Quando la sera del 13 aprile scorso un esercito di finanzieri bussa alla porta del Ministero dell’Istruzione e delle abitazioni degli indagati, l’articolo del quotidiano “La Verità”, che racconta l’inchiesta, è stato praticamente già scritto. Il giornalista che lo redige, Giacomo Amadori, sunteggia, virgolettandoli, interi passi del provvedimento del pm Carlo Villani, che accusa Giovanna Boda di corruzione, in concorso con lo psicanalista Federico Bianchi di Castelbianco, editore dell’agenzia giornalistica Dire, e con la funzionaria del Ministero Valentina Franco. Di più, questa informatissima cronaca racconta i dettagli delle perquisizioni compiute negli appartamenti e negli uffici dei tre indagati e di sei collaboratori della Boda presso il Ministero, ma anche nelle società riconducibili al presunto corruttore. E aggiunge due particolari che nello stesso decreto di perquisizione sono assenti. Il primo è la natura della tangente di 679 mila 776 euro e 65 centesimi, stimata dall’accusa con ragionieristica precisione, che sarebbe stata percepita dalla dirigente dell’Istruzione: riguarderebbe, chiarisce l’articolista de La Verità, “soldi, regali e benefit (dati e promessi)”. Il secondo è un elemento investigativo che non è agli atti dell’indagine, almeno di quelli conosciuti e conoscibili dagli stessi indagati e dai loro avvocati: la donna avrebbe avuto in uso anche la carta di credito di Federico Bianchi di Castelbianco e “l’avrebbe utilizzata per ogni genere di spesa, non tutte destinate a lei”. Circostanze però smentite alla Repubblica dal presunto corruttore, come “carte bugiarde di procura”.
Come nel celebre film “Accadde domani” di René Clair, un giornale va in stampa raccontando una realtà che ancora deve compiersi. Se c’è una talpa, non v’è dubbio che sia bene informata, perché circostanze investigative così specifiche non sono nella disponibilità di tutti i partecipanti all’indagine. E non vorremmo trovarci nei panni del pm inquirente, costretto a guardarsi le spalle da chi lo affianca e dovrebbe, per prima cosa, tutelare la segretezza dell’inchiesta.
Se invece la talpa è una trappola, la verità va cercata altrove. Per esempio in due altri dettagli di questa cronaca che non possono passare inosservati. Perché non sono pertinenti. E segnalano un malcostume diffuso: quello di colorire i fatti con schizzi di fango, raccolti in quello sconfinato archivio delle privatezze umane che è la biblioteca delle intercettazioni.
Il primo dettaglio riguarda la carriera del marito dell’indagata eccellente, Francesco Testa, procuratore di Chieti, la cui “contrastata nomina” avrebbe goduto della sponsorizzazione dell’allora vicepresidente del Csm Giovanni Legnini. Che c’entra con l’ipotesi di corruzione al Ministero dell’Istruzione? C’entra meno di zero. E quasi a volersi lavare la coscienza per averlo tirato in ballo, l’articolista aggiunge che “il magistrato sarebbe stato, però, totalmente all’oscuro dei presunti rapporti illeciti della moglie”. Senonché il particolare rimanda, per associazione di idee, alla guerra senza risparmio di colpi che si combatte tra gruppi e grumi di potere per le nomine all’interno della magistratura. Il vertice della procura abruzzese faceva gola a molti di più di coloro che ufficialmente si candidarono per ricoprirla.
Il secondo dettaglio riguarda i rapporti di collaborazione tra la dirigente dell’Istruzione indagata e Maria Elena Boschi. L’articolista segnala che Giovanna Boda promosse e fissò un incontro tra l’allora ministra per le riforme istituzionali del governo Renzi e il potente membro del Csm Luca Palamara. Chi cercasse di capire quale importanza per le indagini abbia questa sottolineatura resterebbe deluso, oltre che confuso. Perché si tratta anche in questo caso di un particolare irrilevante e non pertinente. Però è vero che Palamara, allora capo della corrente di Unicost, pilotò non poche nomine in diverse procure, tra cui quella di Roma. Con l’effetto di accontentare i suoi referenti e di scontentare i rivali. Un’educazione all’igiene impedisce a chi scrive di maneggiare le numerose intercettazioni che provano questo maleodorante commercio di carriere, ma gli amanti del genere non avrebbero difficoltà a reperirle in rete.
Troppe circostanze inducono a sospettare che la talpa abbia usato un’indagine della procura di Roma per mandare attraverso la stampa precisi segnali. Forse l’obiettivo è andato oltre le intenzioni. Forse si voleva inviare un avvertimento, per così dire, “familiare”, che aggiungesse alla vendetta della gogna un messaggio diretto a più soggetti, connessi con l’indagata. Di operazioni chirurgiche di questo tipo se ne vedono a iosa. In fondo a Giovanna Boda poteva andare anche peggio: di questi tempi per un sospetto si può finire in galera o, magari, interdetti dalle funzioni. Una perquisizione è quasi un trattamento rispettoso del prestigio di una dirigente ministeriale, distintasi per la sua competenza e il suo impegno civile, insignita nel 2014 dal Presidente Napolitano del titolo di commendatore e tutt’ora in rapporti diretti con il Quirinale.
Oggi sappiamo che la talpa ha calcolato male gli effetti della sua manovra. Voleva lo sputtanamento. Ma a trasformare lo sputtanamento in un boomerang è stata la percezione di accerchiamento che l’indagata deve aver sentito insostenibile, scoprendo in un attimo che tutta la sua vita era a nudo, spiata e catalogata in un archivio che in un giorno qualunque poteva aprirsi, scaricandole addosso una montagna di fango. Qualcuno ha sottovalutato che cosa può scattare nella testa di una civil servant esemplare, madre di una bimba di cinque anni, che si vede sequestrare il telefonino e svuotare i suoi cassetti, nell’ufficio e a casa. Che vede farsi attorno a sé terra bruciata, poiché tutti quelli che sono in rapporto con lei ricevono lo stesso trattamento. E che, mentre accade ciò che appare inverosimile e incomprensibile, oltre che inaccettabile, si legge riflessa in un racconto deforme. Che pure suona come una condanna inappellabile.
Che poi la stampa si sia fatta vettore inconsapevole di questi piani è circostanza che scoraggia. E non si tratta di mettere all’indice un cronista o una testata. Perché la condotta de La Verità, animata dalle migliori intenzioni di informare, coincide con quella della maggior parte dei giornali italiani. Il dubbio è la virtù perduta nel racconto del Paese. Per lo stesso motivo le cosiddette prospettazioni accusatorie diventano nelle cronache oro colato, anche quando sono palesemente apodittiche o contraddittorie. Ce n’è una nel decreto di perquisizione che risponde a questo caso: Giovanna Boda è accusata di aver ricevuto da Federico Bianchi di Castelbianco tangenti per 679 mila 776 euro e 65 centesimi, e di aver fatto favori per 79mila 900 euro. Vi sembra possibile? Si è mai vista una mazzetta nove volte maggiore della prestazione illecita?
Eppure il provvedimento del pm Carlo Villani la mette proprio così. In poche righe, com’è, anche questo, costume dei tempi: l’intera vita di un cittadino, la rete delle sue relazioni professionali e personali, la natura dei suoi rapporti privatissimi vengono sezionate in una tomografia investigativa che non risparmia nulla e che si giustifica con un’ipotesi accusatoria quantomeno improbabile. Ma siccome è impossibile che l’accusa non sia fondata, o che la procura abbia sbagliato i conti, l’asimmetria tra prestazione e controprestazione della corruzione non suscita scandalo, né stupore. O piuttosto trova, con realismo maggiore di quello del re, una giustificazione simile a quella indicata dal Fatto Quotidiano: ”È pacifico, vista la sproporzione tra la cifra delle presunte tangenti e quella degli affidamenti diretti, che gli inquirenti ritengano che il rapporto corruttivo possa riguardare anche altro”. È pacifico quindi, aggiungiamo noi, che una perquisizione, cioè un’irruzione dell’azione penale nella libertà di un cittadino avvenga sulla base di un provvedimento sostenuto da una motivazione implausibile. È pacifico, ancora, che il diritto penale sconfini in una sharia laica, dove non si persegue più un illecito specifico, ma un’ingiustizia generica. Dove la corruzione non è più scambio tassativo tra due vantaggi patrimoniali corrispettivi e accertati, ma il racconto di una relazione professionale e umana rovesciata nel sospetto.
Allora è pacifico che lo Stato di diritto somigli a una stanza dell’orrore, nella quale chi entra può cadere nell’inganno di pensare che solo un gesto estremo possa sottrarlo all’incubo. Non sappiamo se lo ha pensato questa donna solare e brillante, il cui grido nella caduta si è fatto un rantolo sordo. Ma ci consola credere che quel rantolo trafiggerà come un dubbio cosmico il cuore di ghiaccio dei suoi persecutori.
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