di Laura Boccenti
Il mito ha svolto un ruolo essenziale in tutte le culture tradizionali ed è stato valorizzato anche dalla filosofia greca antica. La cultura greca arcaica era fondata sull’oralità e aveva come riferimento principale i poemi di Omero e di Esiodo (vissuto tra la fine del secolo VIII a.C. e l’inizio del secolo VII), oltre ai carmi dei poeti in generale, considerati espressione e fondamento del sapere della comunità. Questi poemi narrano le origini del cosmo o le gesta degli eroi con quel linguaggio che, grazie alle immagini espresse in forma narrativa, aveva il compito di conservare, di comunicare e di tramandare l’identità e la civiltà del popolo, e che appunto chiamiamo mito.
I miti venivano cantati, recitati e rappresentati, trasformando ascoltatori e spettatori in partecipanti attivi che, grazie ai significati sprigionati dalla narrazione poetica, si assimilavano emotivamente e concettualmente con l’azione narrata e con i personaggi che la incarnavano, identificandosi in profondità con i modelli proposti.
Nel contesto della cultura mimetico-poetica. il mito ha rappresentato così, per chi lo trasmetteva e per chi lo riceveva, un ingresso nel senso divino della realtà, insieme alla possibilità di esprimere, attraverso il linguaggio simbolico, il significato profondo delle norme morali, delle consuetudini e delle pratiche religiose.
In seguito, con la nascita della filosofia, la cultura greca dà origine a una nuova forma di oralità parallela basata non più su miti e immagini, ma su concetti ed enunciati astratti. Si tratta di una nuova forma espressiva che traduce e si traduce in un modo nuovo di pensare: le risposte alle grandi domande sul senso della vita e dell’universo non vengono più cercate nelle sentenze sapienziali o nei testi dei poeti, ma nelle argomentazioni della ragione che si sforza di motivare le proprie affermazioni.
Sul valore del mito e sul rapporto che esso ha con la ragione filosofica sono state date due interpretazioni contrastanti, l’una negativa e l’altra positiva. Secondo la prima interpretazione, diffusa soprattutto dal razionalismo e dall’illuminismo, i miti sarebbero la creazione di un’umanità primitiva e immatura, priva di categorie logiche, un prodotto culturale da sottoporre a critica e demitizzare, purificandolo dagli elementi fantastici.
Secondo l’interpretazione positiva invece, i miti sarebbero espressione della visione metafisica dei popoli antichi, che hanno saputo esprimere il senso della realtà sia con i concetti sia con il linguaggio simbolico elaborato dalla fantasia che è proprio del mito. Quest’ultima interpretazione trova una conferma magistrale nella filosofia platonica.
I dialoghi del filosofo greco antico Platone (428/42-348/347 a.C.) sono uno straordinario esempio di associazione tra mytos e logos, di fabulazione mitica e di ragionamento discorsivo. Il giudizio di Patone sul mito è peraltro ambivalente. Se da una parte critica la mitologia di Omero e di Esiodo perché «hanno narrato e narrano agli uomini miti falsi» (Repubblica, II), dall’altra salva e rafforza la specificità del mito, inserendolo nel ragionamento discorsivo, nel tentativo di fondere la capacità d’invenzione della ragione poetica con la trasparenza logica della razionalità.
Probabilmente il più celebre dei miti platonici è il “mito della caverna”, narrato all’inizio del libro VII della Repubblica. Metafora della condizione umana, descrive una caverna sotterranea dove gli uomini sin da fanciulli vivono incatenati, costretti dalla posizione che hanno a puntare lo sguardo verso il fondo della caverna senza potersi volgere alla luce del fuoco che arde dietro di loro. Tra il fuoco esterno e la caverna corre una strada lungo la quale è costruito un muro e, dietro al muro, si muovono uomini e oggetti di ogni sorta che proiettano le proprie ombre appunto sul fondo della caverna. Gli uomini prigionieri, basandosi sulla propria esperienza, sono convinti che l’unica realtà esistente sia l’ombra riflessa dagli oggetti sul fondo della caverna. Il mito continua ipotizzando che un prigioniero, liberatosi dalle catene e uscito all’esterno, riesca a vedere la luce del sole e la realtà fuori dalla caverna. Rientrato nell’antro per rivelare la verità agli altri prigionieri e aiutarli a liberarsi a loro volta, stenta a riadattare la vista al buio e viene deriso per essersi rovinato la vista; anzi, i vecchi compagni sembrerebbero decisi a uccidere chiunque provasse di farli uscire dalla caverna. Il senso del mito è trasparente: il prigioniero che si libera è il filosofo che scorge la suprema idea del Bene, generatrice di luce e verità, e desidera parteciparne la visione agli altri uomini.
Secondo Vittorio Strada (1929-2018), autorevole slavista da poco scomparso, il mito della caverna platonico può suggerire la via di una definizione del fantastico, cioè di quella forma d’invenzione poetica nata nell’età post-mitica ed erede, per alcuni aspetti, del mito. A seguito dell’imposizione del modello di conoscenza scientifico come unico modello di conoscenza e di verità, la metafisica e la religione si vedono ridotte a superstizioni soggettive.
In questa situazione i nuovi prigionieri nella caverna sono gli uomini che vivono nel tempo del “disincanto”, un tempo che incarcera l’uomo all’interno di una narrazione in cui la scienza, la tecnica, l’utile e il piacere sensibile sono presentati come descrizioni esclusive e incontrovertibili della realtà.
Ma, tra questi prigionieri, qualcuno, insoddisfatto di ciò che vede, sospetta che esista un’altra realtà, anzi, che esista una realtà vera, ma inaccessibile. È in questa situazione che, nell’interpretazione data da Strada in Il fantastico e la storia (in Cultura e Libri, n. 53, pp. 47-50), appare il fantastico, come invenzione poetica che dà forma alla consapevolezza di essere nella caverna e al presentimento di una realtà invisibile: «Il fantastico è la mitologia poetica di un mondo disincantato e demitologizzato, l’apertura della realtà empirica a una surrealtà metafisica».