di Maurizio Brunetti
Girato nel 2014 e proiettato in anteprima nel 2016 in un’Aula della Camera dei Deputati, Il figlio sospeso, film scritto e diretto dal palermitano Egidio Termine, ha debuttato nei cinema – sia pure con una distribuzione per ora limitata – il 23 novembre scorso.
Si tratta decisamente di un prodotto atipico per la cinematografia italiana: non è il solito racconto ironico e un po’ dolente dell’immaturità affettiva di una generazione sempre sull’orlo di una crisi di nervi – quella interpretata tante volte dai Carlo Verdone, Nanni Moretti, Sergio Castellitto e Margherita Buy –, né di un’opera didascalica buonista, magari orientata in senso immigrazionista o gay-friendly. Stupisce, perciò, che l’opera abbia ottenuto il riconoscimento d’interesse culturale da parte del ministero dei Beni Culturali e del Turismo. Il tema è quello dell’utero in affitto, visto dall’ottica delle vittime: il figlio, anzitutto, ma anche le due “madri” tra cui questi è “sospeso”.
La pellicola segna il ritorno del regista al mondo del cinema dopo venti anni, assenza dovuta – racconta lo stesso Termine – a una conversione al cattolicesimo che lo ha spinto a intraprendere studi di teologia.
La sceneggiatura non è neutrale rispetto al fenomeno che descrive: le ferite che segnano i protagonisti lo renderebbero, del resto, impossibile. Essa, però, non si caratterizza nemmeno come un’opera di denuncia. Non è, per intenderci, l’analogo “bioetico” italiano del pur pregevole e recente God’s Not Dead 2. L’approccio ricorda piuttosto quello dei romanzi di Susanna Manzin Il destino del fuco e Come salmoni in un torrente dove, peraltro, si ritrovano messi a fuoco gli stessi punti dolenti della post-modernità: senza la necessità di fare proclami, bastano gli snodi narrativi a far emergere la dis-umanità della maternità surrogata, oppure la fragilità e i disagi relazionali conseguenti all’assenza del padre.
Il figlio sospeso riesce a emozionare. Glielo consente la plausibilità della storia (a meno dell’anacronismo anagrafico di una certa scena semi-onirica); la fotografia e le location suggestive (il film è stato girato a Bagheria, Capo Zafferano e altre zone incantevoli della città metropolitana di Palermo); ma soprattutto la bravura dei protagonisti: Paolo Briguglio, impegnato in un doppio ruolo; le due “madri” Aglaia Mora e la giustamente premiata Gioia Spaziani. Lo script prevede anche intermezzi che inducono al sorriso: impegnano la nota soprano palermitana Laura Giordano, che nel film non interpreta però una cantante lirica, e sono strumentali non solo a stemperare la tensione drammatica, ma anche alla “guarigione” del protagonista.
Un’ultima osservazione riguarda la presenza nel film, sobria ma tangibile, del trascendente: vi sono richiami evangelici; si ragiona sul perdonarsi e il lasciarsi perdonare come precondizione per accedere ai benefici della Redenzione; c’è un sacerdote che celebra senza dire cose stravaganti; nonché una suora che, in barba a qualunque stereotipo cinematografico, ha un cuore, un cervello e si comporta, senza essere stucchevole, in accordo a un’autentica vocazione religiosa.
Il ritmo della pellicola, soprattutto nella prima parte, potrebbe apparire non congeniale ai gusti di un pubblico adolescenziale. Tuttavia, l’esito della proiezione del 1° dicembre a Caltagirone, avvenuta in presenza del regista, del referente regionale siciliano del Comitato Difendiamo i Nostri Figli Alberto Maira, e dinanzi a un pubblico di varie centinaia di studenti, sfata tale pregiudizio: la platea, alla fine della proiezione, è scoppiata in un fragoroso e prolungato applauso.