di Marco Invernizzi
Il discorso del Santo Padre al corpo diplomatico è tradizionalmente uno dei discorsi più importanti del pontificato e costituisce una sorta di aggiornamento della politica della Santa Sede nei confronti degli Stati, rappresentati dagli ambasciatori. Quello pronunciato da Papa Francesco il 7 gennaio vale la pena di essere letto e riletto, con calma e sine ira et studio, cercando di abbandonare lo stile rancoroso che oggi caratterizza i modi della comunicazione, in particolare quando si tratta di questo pontificato.
È perciò importante enuclearne i tratti fondamentali, senza entrare nelle singole situazioni di crisi e di conflitto richiamate dal Pontefice. A tale scopo è opportuno iniziare dalla fine, in particolare da due eventi ricordati da Francesco attraverso l’evocazione di due anniversari. Il primo sono i 90 anni dai Patti Lateranensi che, l’11 febbraio 1929, posero fine alla “Questione romana” e al conflitto fra Chiesa e Stato italiano iniziato con il Risorgimento. Il tema è di grande rilevanza e sarà opportuno affrontarlo in altra occasione.
L’altra ricorrenza citata dal Papa è il 30° anniversario dell’abbattimento del Muro di Berlino, avvenuto nel novembre del 1989, un fatto che segnò e che, per le enormi conseguenze provocate, continua a caratterizzare la politica internazionale. Infatti, la diplomazia multilaterale praticata oggi dalla Santa Sede nasce proprio come risposta alle due guerre mondiali del Novecento, provocate soprattutto dalla diffusione dell’ideologia nazionalista (la Prima, 1914-1918) e dalla «guerra civile europea», per usare l’espressione dello storico tedesco Ernst Nolte (1923-2016), che inizia nel 1914 ma che continua dopo il fallimento del Trattato di Versailles nel 1919 (altra data da ricordare quest’anno), sfociando nella Seconda guerra mondiale (1939-1945). Dopo questi due tragici cataclismi, la Santa Sede si è trovata di fronte ai due blocchi rappresentati dal mondo comunista e da quello cosiddetto “libero”, che si fronteggiano appunto fino al 1989 e il cui confronto costituisce la componente “dominante” nelle relazioni internazionali, cioè la cosiddetta “Guerra fredda” (1947-1989).
Per fronteggiare il pericolo del ripetersi dei conflitti mondiali sono nate la Società delle Nazioni dopo la Prima guerra mondiale e l’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU) dopo la Seconda, miranti a sottoporre tutti i singoli Stati a una autorità internazionale. Il sistema internazionale basato sull’ONU non ha però funzionato nel periodo precedente l’abbattimento del Muro di Berlino a causa della contrapposizione ideologico-politica fra Stati Uniti e Unione Sovietica che ne bloccava ogni decisione significativa. Oggi, invece, la situazione è diversa.
Il Papa sembra perfettamente consapevole dei motivi che attualmente impediscono il corretto funzionamento di quell’organismo sovranazionale: «Premessa indispensabile del successo della diplomazia multilaterale sono la buona volontà e la buona fede degli interlocutori, la disponibilità a un confronto leale e sincero e la volontà di accettare gli inevitabili compromessi che nascono dal confronto tra le Parti». Sembrano lamentazioni banali, ma indicano invece puntualmente il vero ostacolo: «Laddove anche uno solo di questi elementi viene a mancare, prevale la ricerca di soluzioni unilaterali e, in ultima istanza, la sopraffazione del più forte sul più debole. La Società delle Nazioni entrò in crisi proprio per questi motivi e, purtroppo, si nota che i medesimi atteggiamenti anche oggi stanno insidiando la tenuta delle principali Organizzazioni internazionali».
Il motivo del non funzionamento, oggi, delle relazioni internazionali è probabilmente riscontrabile nel fatto che “buona volontà” e “buona fede” sono oggi merce rara e che, in un’epoca dominata dalla “dittatura del relativismo”, il «riemergere di tendenze nazionalistiche» costituisce una forma di difesa legittima degli Stati nazionali dall’imposizione di modelli di comportamento ispirati all’ideologia del “politicamente corretto”. È quanto il Pontefice spiega così: «Ciò è in parte dovuto a una certa incapacità del sistema multilaterale di offrire soluzioni efficaci a diverse situazioni da tempo irrisolte, come alcuni conflitti “congelati”, e di affrontare le sfide attuali in modo soddisfacente per tutti. In parte, è il risultato dell’evoluzione delle politiche nazionali, sempre più frequentemente determinate dalla ricerca di un consenso immediato e settario, piuttosto che dal perseguimento paziente del bene comune con risposte di lungo periodo. In parte, è pure l’esito dell’accresciuta preponderanza nelle Organizzazioni internazionali di poteri e gruppi di interesse che impongono le proprie visioni e idee, innescando nuove forme di colonizzazione ideologica, non di rado irrispettose dell’identità, della dignità e della sensibilità dei popoli».
Senza togliere importanza alle altre cause, quest’ultima è quella meritevole di maggiore attenzione perché spiega l’atteggiamento reattivo che è presente in molte fasce della popolazione e che viene raccolto come consenso politico dai partiti cosiddetti neo-nazionalisti.
Bisogna anche dire, però, per riportare correttamente tutte le motivazioni elencate dal Papa per spiegare l’insofferenza di tanti nella nostra epoca, che, con la “fine delle ideologie”, nel mondo ci si attendeva un’epoca di pace e di benessere, ma che così non è stato: «è la conseguenza della reazione in alcune aree del mondo ad una globalizzazione sviluppatasi per certi versi troppo rapidamente e disordinatamente, così che tra la globalizzazione e la localizzazione si produce una tensione. Bisogna dunque prestare attenzione alla dimensione globale senza perdere di vista ciò che è locale. Dinanzi all’idea di una “globalizzazione sferica”, che livella le differenze e nella quale le particolarità sembrano scomparire, è facile che riemergano i nazionalismi, mentre la globalizzazione può essere anche un’opportunità nel momento in cui essa è “poliedrica”, ovvero favorisce una tensione positiva fra l’identità di ciascun popolo e Paese e la globalizzazione stessa, secondo il principio che il tutto è superiore alla parte».
In pratica, è possibile dire che i conflitti non diventano cruenti solo perché i contendenti vedono profilarsi da essi più danni che vantaggi, ma non per convinzioni morali. Una pace di questo tipo non è una vera pace e può finire da un momento all’altro. D’altra parte, questa è la situazione attuale e in questa situazione si deve realisticamente cercare la strada per uscire, lasciando perdere lamenti, grida e atteggiamenti inutili e a volte isterici. Oggi non esistono uno ius gentium e un “senso comune” riconosciuti dagli Stati e dai popoli, e la Santa Sede deve quindi cercare le soluzioni meno difficili e dolorose fra quelle possibili.
Per raggiungere questo risultato, parziale ma necessario, il Papa fornisce alcune indicazioni: «Alla politica è richiesto di essere lungimirante, di non limitarsi a cercare soluzioni di corto respiro. Il buon politico non deve occupare spazi, ma avviare processi; egli è chiamato a far prevalere l’unità sul conflitto, alla cui base vi è “la solidarietà, intesa nel suo significato più profondo e di sfida”. Essa “diventa così uno stile di costruzione della storia, un ambito vitale dove i conflitti, le tensioni e gli opposti possono raggiungere una pluriforme unità che genera nuova vita”».
In sostanza, si può dire che il mondo contemporaneo ha perso ogni riferimento: da secoli quello al diritto naturale, e da trent’anni quello relativo al conflitto fra libertà e totalitarismo. Dopo il 1989, il mondo è caratterizzato dal riemergere di culture e di civiltà (e dal 1979 dal rilancio del fondamentalismo islamico) che erano “dormienti” durante la “Guerra fredda”, e in questo mondo multipolare la Santa Sede cerca una politica che scongiuri i conflitti e che favorisca la pace e la giustizia, consapevole peraltro che entrambe hanno bisogna di una concezione dell’uomo che non è assolutamente comune alle grandi potenze mondiali.
In questo contesto, scrive il Pontefice, «Il rispetto […] della dignità di ogni essere umano è la premessa indispensabile per ogni convivenza realmente pacifica, e il diritto costituisce lo strumento essenziale per il conseguimento della giustizia sociale e per alimentare vincoli fraterni tra i popoli».
Forse è proprio da qui, dalla persona e dalla sua dignità, che occorre ripartire anche per costruire relazioni internazionali che non siano soltanto accordi interessati fra potenze mondiali. E sarà inevitabilmente un percorso lungo e difficile, di fonte al quale sarà necessaria tanta pazienza.
Mercoledì, 9 gennaio 2019