Mons. Antonio de Castro Mayer, Cristianità, 1 (1973)
Traduzione della prima parte dello studio Como se prepara uma revolução – O jansenismo e a terceira força, comparso su Catolicismo, Campos, agosto 1952, n. 20.
Come è noto, la Rivoluzione francese fu il frutto di una profonda preparazione ideologica, che, dal Rinascimento e dal protestantesimo, passando attraverso il deismo e l’illuminismo, giunse alla completa empietà, espressa con tutta chiarezza nelle realizzazioni politiche e religiose del sollevamento repubblicano del 1792.
IL GIANSENISMO, QUINTA COLONNA NELLA CHIESA
A una prima considerazione, la lotta sulla fine del secolo XVIII sembrerebbe delinearsi in termini molto chiari: da una parte la Chiesa, dalla parte opposta l’insieme di correnti e sette dichiaratamente empie – protestantesimo, filosofismo, illuminismo, ecc. – che si potrebbe chiamare l’anti-Chiesa. In realtà il panorama era più complesso. L’anti-Chiesa non aveva tutti i suoi seguaci collocati nelle file esplicitamente eterodosse; aveva infatti trovato modo di disporre suoi elementi in grande numero all’interno delle stesse file cattoliche. E questi elementi non erano isolati gli uni dagli altri e non agivano ciascuno separatamente. Costituivano tutta una rete di attività sapientemente eseguite, che miravano a fare all’interno della Chiesa il gioco degli avversari di essa; in breve, ciò che oggi si chiamerebbe una quinta colonna.
L’obiettivo di questa quinta colonna consisteva nel minare la reazione cattolica. A questo fine aveva una duplice missione. In primo luogo, quella di diffondere, sotto veste di cattolicesimo genuino, sistemi teologici e morali erronei, che avvicinassero i fedeli alle tendenze empie e li allontanassero dagli insegnamenti di Roma. In secondo luogo, quella di introdursi, nella misura del possibile, nei posti chiave: cattedre universitarie; direzione spirituale dei seminari e comunità religiose, di troni e principati; parrocchie importanti; e, soprattutto, sogli episcopali. In questo modo l’eresia cercava di infiltrarsi il più profondamente possibile nelle viscere stesse della Chiesa e delle monarchie cristiane e otteneva il risultato di disorientare e di perdere i fedeli, insegnando loro quasi con l’autorità della Chiesa stessa gli errori da questa condannati.
Tale fu il giansenismo, eresia nefasta che con cinici sotterfugi si prese gioco delle varie condanne lanciate contro di essa dal Magistero infallibile, e cercò sempre di mantenersi nel seno del cattolicesimo, per corromperne le fonti vitali.
IL GIANSENISMO MINAVA LA FEDE ED ESTINGUEVA LA PIETÀ
L’obbedienza e la docilità al Santo Padre, la fedeltà alla Scolastica – questa mirabile sintesi della filosofia e della Rivelazione -, il fervore dei fedeli nella frequenza alla confessione e alla mensa eucaristica, e la devozione alla Madonna, assicurano nella Chiesa la conservazione di quella energia che la rende la pietra viva contro la quale si spezzano le armi infernali.
I giansenisti, nemici della Chiesa, tentano di restare apparentemente nel suo seno, per farla finita con tutto questo. Il loro rigorismo farisaico allontana i fedeli dai sacramenti. La critica sofistica a cui sottoponevano le decisioni pontificie diede origine all’”opinionismo”, al “liberalismo cattolico”, alla libertà per ciascuno di pensare come vuole, poiché si tratta soltanto di opinioni che possono essere vere, come possono essere false; l’esaltazione della Patristica e della Chiesa primitiva, scuotendo la fiducia nella Scolastica, teologia più chiara, più precisa, più definita, dà origine alle incertezze della intelligenza operando in un campo ancora nebuloso, e conferma profondamente gli spiriti nella convinzione che si tratta sempre di opinioni ugualmente rispettabili.
Questo è l’intento del giansenismo così come si può ricavare dalla sua storia. In realtà esso si presentava come difensore della teologia di sant’Agostino, interpretata in senso protestantico, come se il Dottore della Grazia ammettesse la duplice predestinazione come frutto necessario della grazia divina o della sua assenza. Infatti, per i giansenisti, vi sono precetti divini per il cui adempimento mancano all’uomo le energie necessarie; e nel caso riceva queste energie, ossia la grazia di Dio, ormai non è più libero di compiere l’opera buona: l’aiuto divino spinge necessariamente la sua volontà.
In apparenza, quindi, il giansenismo divide gli spiriti semplicemente su un terreno teologico. Di fatto, si tratta di una congiura, del tipo di una quinta colonna odierna, per scalzare la Chiesa.
LA QUINTA COLONNA SMASCHERATA
Si comprende facilmente che questa setta eretica avrebbe realizzato la sua impresa infernale con successo se fosse riuscita a rimanere completamente occulta all’interno degli ambienti cattolici. Ma non andò così. Vigorosamente combattuta da teologi e polemisti di valore, fu costretta a difendersi. E, uscendo in campo aperto, mise in mostra non solo gli artigli, ma tutta la muscolatura. Il suo obiettivo essenziale restava così, almeno in parte, frustrato. Roma, messa in allarme, aveva condannato il sistema. I fedeli erano quindi premuniti. I giansenisti che si dicevano cattolici, ormai non potevano più agire nell’ombra, come una quinta colonna. Restava loro da costituire, mantenendo l’apparenza di cattolici, una specie di “chiesa dentro la Chiesa”, raccogliendo gli spiriti più orgogliosi, più temerari, più dissoluti, per combattere continuamente i figli della luce, in una incessante guerriglia di cavilli e di sofismi contro i cattolici autentici. A questo modo, era più facile ordire la cospirazione dei figli delle tenebre fuori dagli accampamenti della Chiesa.
TRA GIANSENISTI E ORTODOSSI, UNA TERZA FORZA
Sulla rivista Annales – attualmente, come è noto, uno dei migliori organi specializzati in storia – Émile Appolis pubblica un articolo di valore e di molto interesse, nel quale, riunendo fatti già noti e nuovi documenti da lui raccolti, giunge a dimostrare, con una chiarezza impressionante, che il giansenismo, individuato, condannato, perseguitato, ma sempre radicato negli ambienti cattolici, produsse a sua volta quasi una terza forza – un terzo partito, dice Appolis – costituita da ecclesiastici di diverse categorie, che svolsero il compito molta delicato di fornire ai giansenisti sopportabili condizioni di esistenza in seno alla Chiesa, nonostante tutta la pressione contraria (1). In primo luogo, tali ecclesiastici non si dichiaravano giansenisti. Anzi, in linea generale il loro modo di agire dava la illusione che fossero d’accordo con Roma. In realtà, pero, non combattevano il giansenismo, e sostenevano la tesi che questo sarebbe tranquillamente scomparso se gli antigiansenisti avessero smesso qualsiasi campagna contraria, e la Santa Sede si fosse astenuta da ogni misura di rigore che avesse carattere personale.
Questa posizione, che dal punto di vista dottrinale non era quella dei giansenisti, e neppure quella degli antigiansenisti militanti, riuscì gradita a molti spiriti eminenti, desiderosi di impegnare tutta la loro influenza per togliere vigore alla lotta contro l’eresia.
A partire dal momento in cui questa tattica insidiosa trionfò, nelle file cattoliche si manifestarono tre atteggiamenti: quello dei giansenisti, in lotta aperta contro i seguaci di Roma; quello della terza forza, anch’essa opposta ai seguaci di Roma, che accusava di essere esagerati, intransigenti, fomentatori di lotte, nemici della carità; e quello dei seguaci di Roma, isolati, incompresi, scoraggiati perché contro di loro si volgevano non solo i giansenisti, ma anche molte persone illustri per le cariche che ricoprivano, e degne per la loro pietà e austerità di vita, arruolate nella terza forza.
Il grande merito dello studio di Appolis consiste nel mettere in rilievo che gli uomini della terza posizione, sotto veste di neutralità, erano agenti devoti della causa giansenista e che prestavano alla setta il più prezioso dei servizi.
Questo importante punto della storia ecclesiastica riceve così una luce nuova. La nostra rivista, nel cui programma si inserisce lo stimolare l’interesse per la storia della Chiesa, offre ai suoi lettori i principali passaggi dello studio di Émile Appolis. Sarà inutile ricordare a persone colte che la grande interferenza, allora operante, del potere temporale nella nomina dei vescovi, pregiudicava in modo grave la libertà di movimenti della Santa Sede, così come la scelta di Pastori autenticamente imbevuti dello spirito di integrale fedeltà a Roma.
COSTITUZIONALI, APPELLANTI, MODERATI.
Appolis prende come oggetto del suo studio la Francia del secolo XVIII. Il giansenismo come setta era nella sua ultima fase di vita (poi sopravvisse a sé stesso nello spirito liberale che infesta ancora oggi molte mentalità e movimenti cattolici). In quell’epoca la sua grande guida era Pasquier Quesnel, la cui opera Reflexions morales sur le Nouveau Testament fu, dopo varie vicissitudini, fulminata dalla bolla Unigenitus di Clemente XI, dell’8 settembre 1713. Ma il giansenismo, grazie alla negligenza del potere secolare, aveva ormai rassodato le proprie radici in Francia. Così, benché registrata dal parlamento e accolta dalla Assemblea del clero, tale bolla papale non ottenne obbedienza pacifica di tutto il paese; di fronte a essa i vescovi francesi si divisero in tre gruppi. Una parte accolse pienamente la parola di Roma, e applicò con ardore tutte le disposizioni della bolla; Appolis li chiama “costituzionali”, in virtù della loro adesione perfetta alla costituzione apostolica. Un’altra parte, dichiaratamente giansenista, rifiutò di sottomettersi alla decisione della Santa Sede e interpose appello contro la costituzione presso il futuro concilio generale: sono gli “appellanti”, che nel 1717 erano quattro, e poi furono in numero di venti. Una terza parte scelse una posizione intermedia, sottoscrisse la bolla, ma non fece nulla per applicarla: sono quelli che Appolis chiama di terza forza.
L’ARMA DELLA TERZA FORZA: SALVARE L’UNITÀ
La ragione invocata da questo ultimo gruppo di prelati è il mantenimento della pace tra i fedeli, e della carità con tutti. Così, non prendono partito, e non si preoccupano di sapere se nelle loro diocesi vi sono dei giansenisti. Tale fu mons. Pierre Clément, vescovo di Périgueux, che, morendo, meritò questo elogio: “Il signor vescovo aveva, proprio fino alla sua morte, contribuito alla nostra pace; nessuno aveva preso partito [a favore o contro la Unigenitus] e non ci era stato assolutamente chiesto” (2).
Identico è l’atteggiamento di diversi altri prelati: del successore di mons. Pierre Clément a Périgueux; di mons. Denis-Alexandre Le Blanc, della diocesi di Sarlat; di mons. Louis-Charles des Alrys de Rousset che nella sua diocesi, per quarant’anni, conservò una bonaccia inesistente nei vescovadi vicini; di mons. J.A. Phélypeaux, vescovo di Lodève, assolutamente indifferente alle bolle e alle dichiarazioni regali. Quando una di queste ultime, nel giugno del 1722, impose l’accettazione delle formule antigianseniste da parte di quanti ricevessero gli ordini sacri, o ricevessero benefici ecclesiastici, mons. Phélypeaux non ebbe dubbi di sorta nel conferire ordini a molti suoi sudditi che avevano rifiutato di sottoscrivere il formulario, così come nel concedere prebende ecclesiastiche senza esigere dalle persone in tale modo favorite il preventivo adempimento di questa formalità.
Ma la terza forza in senso proprio non è costituita da costoro. La loro mancanza di zelo e una coloritura di spirito scettico fanno di essi una porzione meno degna delle cariche che ricoprono. Quelli del terzo partito hanno un atteggiamento analogo, ma non sono mossi da negligenza, bensì da un problema di dottrina, dal principio che la pace è un valore sommo, ed è quindi desiderabile conservarla a ogni costo, anche quando così facendo si indeboliscano le forze dei difensori della verità, e si apra il campo ai propagatori dell’errore.
Mantenendo tra loro rapporti molto cordiali, dice Appolis, formano un autentico partito intermedio tra gli “appellanti” e i loro avversari. Senza ricorrere a un futuro concilio e affermando sempre la loro sottomissione alla bolla di Clemente XI, tali prelati rifiutano, ciononostante, di allinearsi tra i “costituzionali” integralmente docili a Roma. Come i giansenisti, anch’essi aspirano alla fine delle discussioni per “amore della pace” e “odio allo scisma”. Non vogliono considerare gli “appellanti” come sospetti di eresia, dal momento che costoro affermano di condannare le cinque proposizioni di Giansenio e di sostenere sulla grazia la dottrina di sant’Agostino, per le cui tesi professano anch’essi una grande venerazione. In questo modo tali vescovi vogliono semplicemente mettere una pietra sul problema, “I sostenitori di questo terzo partito, dunque – conclude Appolis -, aspirano a restaurare l’unità della Chiesa, non attraverso la ritrattazione dei giansenisti, ma attraverso l’instaurazione di una tolleranza della quale costoro sarebbero stati i beneficiari“.
A questo proposito è significativa la pastorale dell’8 febbraio 1715 di mons. Honoré de Quiqueran de Beaujeu, vescovo di Castres. Dopo aver fatto una dichiarazione di deferenza nei confronti della Santa Sede, e dopo aver parlato in termini commoventi “del rispetto e della sottomissione che dobbiamo a Cefa”, dichiara che intende conservare una posizione equilibrata tra i due gruppi avversari: “Prelati rispettabili per la loro scienza e per la loro pietà hanno ritenuto di doversi appellare al futuro concilio … Altri prelati ai quali dobbiamo un non minore rispetto hanno condannato questo appello e lo hanno dichiarato scismatico“. Per amore di pace, mons. De Beaujeu si mantiene fuori dalle dispute, e dà ai suoi diocesani ordini coerenti con questo proposito. Nella sua diocesi egli desidera soltanto la pace e la carità: “… lasciamo ad altri la cura di chiarire e difendere la verità oscurata o attaccata dalle discussioni che guastano la carità, nella quale soltanto vogliamo restare fermi e confermarvi con noi“.
Trabocca in modo particolare la sua carità verso gli “appellanti”. “Ci è di grande peso vedere nostri fratelli – e quali fratelli, mio Dio! -, ci è di grande peso vederli accusati di ribellione, ci è gravoso vederli trattati come scismatici e sappiamo che essi aborriscono lo scisma come il maggiore dei delitti. Ci è gravoso vederli accusati di eresia, perché sappiamo che essi condannano le cinque proposizioni di Giansenio e sostengono, sul tema della grazia, niente più della dottrina di san Tommaso e di sant’Agostino…“.
Non meraviglia quindi che i vescovi “appellanti” conservino rapporti di grande cordialità con gli uomini del partito intermedio.
IL CARDINALE FLEURY APPOGGIA LA TERZA FORZA
Quando il cardinale Fleury fu chiamato a ricoprire la carica di ministro di Luigi XV ed ebbe l’incarico di provvedere i benefici ecclesiastici, si rallegrò dell’esistenza del terzo partito. In esso il ministro vedeva gli uomini della pace, che avrebbero evitato ogni perturbazione nel regno. Così, benché desiderasse la sottomissione a Roma, considerava più urgente conservare la tranquillità pubblica. Questa preoccupazione orientò tutta la politica ecclesiastica di Fleury. Non gli piacevano i “costituzionali”. Né appoggiava apertamente gli “appellanti”. Le sue predilezioni andavano a quelli della terza forza, nonostante notasse in essi simpatie e tendenze gianseniste. Fleury reclutò i candidati all’episcopato nelle file della terza forza e, con la prudenza del caso, andò sostituendo nel governo delle diocesi i “costituzionali” con elementi del gruppo intermedio. A Carcassonne, al posto di mons. L.-J. de Châteauneuf de Rochebonne, che aveva affidato il suo seminario ai gesuiti, Fleury colloca Bazin de Bezons; a Châlons-sur-Marne a mons. Tavannes, che aveva proibito alle orsoline gianseniste di ricevere i sacramenti, succede Choiseul-Beaupré; a Mirepoix, mons. Ch.-Jos. de Quiqueran de Beaujeu, nipote dell’altro Quiqueran de Beaujeu già considerato come cripto-giansenista, sostituisce il teatino mons. Boyer, ardente “costituzionale”, chiamato a essere precettore del Delfino; a Soissons, mons. Fitz-James è il secondo successore di mons. Languet de Gergy, altro ardente seguace della Unigenitus.
Perché si valuti il grado di ortodossia di questi elementi – e non furono gli unici; sono soltanto esempi – basti ricordare che Fleury dovette vincere scrupoli di coscienza nel caso della nomina di alcuni di essi, come Souillac, vescovo di Lodève, su cui pesavano non infondati sospetti di eresia.
Vi sono buone possibilità che queste voci negative circa la ortodossia dei seguaci della pace a qualsiasi prezzo, sia stata una delle ragioni che fece loro meritare l’appoggio del cardinale ministro. Fleury era certo che, in qualunque eventualità, sarebbero ricorsi a lui, e questo fatto gli dava in pratica la direzione di tutta la Chiesa di Francia. E accadde proprio così. Quando il giansenismo sviò verso i fatti miracolosi, o mirabolanti, le convulsioni, le cure, ecc, tutti questi vescovi soffocarono i fatti, evitando qualsiasi rumore e seguendo docilmente le istruzioni di completa bonaccia del cardinale.
La terza forza ebbe un momento di panico quando, alla morte del cardinale Fleury (1743), lo sostituì nell’incarico di proporre alla Santa Sede, in nome del re, i candidati all’episcopato lo stesso mons. Boyer allontanato da Mirepoix per le sue idee ardentemente favorevoli alla bolla Unigenitus. E se mons. Boyer non fosse morto nel 1755, in breve tempo la Chiesa di Francia sarebbe rimasta libera dagli “appellanti” e dagli intermedi, con un episcopato interamente docile alle istruzioni di Roma. Purtroppo i suoi due successori, prima il cardinale de La Rochefoucauld, morto nel 1757 e poi mons. Jarente de la Bruyère, vescovo di Orléans, ripresero la politica di Fleury, e si resero responsabili della nomina di molti prelati della terza forza.
I CRIPTO-GIANSENISTI OSTENTANO DEVOZIONE E ZELO APOSTOLICO
Quanto fosse utile alla causa giansenista questo partito intermedio, è evidente per chi considera le eccezionali possibilità a disposizione dei prelati a essa affiliati di diffondere tutta una mentalità di inazione di fronte all’errore e alla eresia; possibilità rese maggiori dal tenore di vita di questi vescovi, di apparenza austera, zelante e pia, che li rendeva ancora più raccomandabili.
Tutti presentano, infatti, caratteristiche più o meno comuni. Se non tutti sono oratoriani (la Congregazione dell’Oratorio, del cardinale de Berulle, fu un grande baluardo del giansenismo), quasi tutti avevano fatto i loro studi in istituti affidati agli oratoriani. Alcuni sono ex-alunni dei Dottrinari.
Questa origine, che poteva renderli sospetti, era controbilanciata da altre qualità capaci di influenzare potentemente lo spirito del popolo. In generale avevano un alto concetto dei loro doveri episcopali. Osservanti scrupolosi della legge di residenza, assidui e infaticabili nelle visite pastorali, non tralasciavano mai di istruire il popolo con sermoni e catechesi. Mons. Souillac, il 20 novembre 1735, rimane sul pulpito per due ore e un quarto per chiudere la missione di Lodève.
Un altro aspetto capace di attirare la venerazione del popolo era costituito dalle pratiche di carità. Mons. La Châtre, mons. Souillac, mons. Beauteville e mons. Bazin de Bezons costituiscono eredi dei loro beni gli ospedali delle rispettive sedi episcopali.
In tema di danaro si mostrano assolutamente disinteressati. Rinunciano ad altri benefici per accontentarsi esclusivamente delle entrate delle proprie curie. Severi con sé stessi, li sono anche con il popolo. Appolis li accusa di essere rigoristi. Il capitolo della cattedrale di Alès, annunciando ai fedeli la morte di mons. de Beauteville, sottolinea che “aveva una opinione molto severa dei doveri degli uomini nei confronti di Dio e pensava che la via del cielo è stretta e difficile“. Mons. Souillac, nei suoi primi quattro anni di episcopato, si rifiuta di conferire ordini sacri per timore di ingannarsi nella scelta dei candidati. Bazin de Bezons si prepara per le ordinazioni con digiuni, mortificazioni e continue orazioni. Questo stesso prelato è il terrore del suo clero per l’eccessivo rigore nelle visite pastorali. Tra i vescovi della corrente intermedia questa severità è generale. Si sollevano anche contro le sregolatezze di Luigi XV, nelle stesse pubblicazioni destinate alla divulgazione, come istruzioni pastorali.
Nel prossimo numero vedremo come questi prelati diedero un aiuto e un concorso inestimabile alla setta giansenista.
+ ANTONIO DE CASTRO MAYER
Vescovo di Campos
Note:
(1) Cfr. ÉMILE APPOLIS, Entre Jansénistes et Costitutionnaires: un tiers parti, comunicazione al IX Congrès Inter. des sciences Historiques (Parigi, 1 settembre 1950), in Annales, aprile-giugno 1951, anno VI, n. 2, pp. 154-171.
(2) Lettera inviata dal vicedelegato di Périgueux all’intendente di Bordeaux.
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