Il «Piano nazionale di ripresa e resilienza Next Generation Italia» è il programma di investimenti presentato dal nostro governo alla Commissione europea nell’ambito del «Quadro finanziario pluriennale 2021-2027» e del Piano di rilancio europeo denominato “Next Generation EU”. Un massiccio piano di investimenti finalizzati a far uscire il Paese dalla crisi sanitaria, sociale ed economico-finanziaria seguita ai lockdown imposti dai pubblici poteri negli ultimi 15 mesi per arginare la diffusione pandemica del Covid-19
di Maurizio Milano
Con l’approvazione del Quadro finanziario pluriennale 2021-2027 e del Piano di rilancio europeo denominato NextGenerationEU (il cosiddetto Recovery Fund), il 10 dicembre 2020 l’Unione Europea ha raggiunto l’accordo sullo stanziamento di un totale rispettivamente di 1.074 miliardi di euro di investimenti pubblici strategici, a cui si assommano i 750 miliardi del Recovery Fund per la ricostruzione post-pandemica. L’obiettivo della Commissione Europea, come affermato dalla sua presidente, Ursula von der Leyen, è quello di «modernizzare e rendere più resilienti, verdi e digitali i sistemi economici europei», con un bilancio alimentato per la prima volta dal debito comune. Vengono così definite le linee guida che dovranno seguire gli investimenti pubblici – e privati – negli anni a venire.
L’Italia ha recentemente presentato il proprio piano di attuazione (il Piano nazionale di ripresa e resilienza – PNRR), un documento corposo, di 269 pagine, articolato su sei “missioni”: 1) Digitalizzazione, innovazione, competitività, cultura e turismo; 2) Rivoluzione verde e transizione ecologica; 3) Infrastrutture per una mobilità sostenibile; 4) Istruzione e ricerca; 5) Inclusione e coesione; 6) Salute. Il presidente del consiglio Mario Draghi evidenzia che «il Piano è in piena coerenza con i sei pilastri del NGEU e soddisfa largamente i parametri fissati dai regolamenti europei sulle quote di progetti “verdi” e digitali».
Nella presentazione del Piano italiano, Draghi esordisce evidenziando che «la pandemia di Covid-19 ha colpito l’economia italiana più di altri Paesi europei. Nel 2020, il prodotto interno lordo si è ridotto dell’8,9%, a fronte di un calo nell’Unione Europea del 6,2%. L’Italia è stata colpita prima e più duramente dalla crisi sanitaria […]. La crisi si è abbattuta su un Paese già fragile dal punto di vista economico, sociale ed ambientale. Tra il 1999 e il 2019, il Pil in Italia è cresciuto in totale del 7,9%. Nello stesso periodo in Germania, Francia e Spagna, l’aumento è stato rispettivamente del 30,2%, del 32,4% e del 43,6%. Tra il 2005 e il 2019, il numero di persone sotto la soglia di povertà assoluta è salito dal 3,3% al 7,7% della popolazione – prima di aumentare ulteriormente nel 2020 fino al 9,4%. Ad essere particolarmente colpiti sono stati donne e giovani».
Draghi afferma che «L’Italia è particolarmente vulnerabile ai cambiamenti climatici» ed evidenzia il «deludente andamento della produttività», che imputa principalmente alla «incapacità di cogliere le molte opportunità legate alla rivoluzione digitale»sia per la «mancanza di infrastrutture adeguate», sia per la «struttura del tessuto produttivo, caratterizzato da una prevalenza di piccole e medie imprese»: un ritardo che affligge anche la Pubblica Amministrazione, cui si attribuisce la causa nella diminuzione degli investimenti pubblici, passati «dal 14,6% degli investimenti totali nel 1999 al 12,7% nel 2019». Tra i fattori che rallentano il Paese, Draghi evidenzia anche «ritardi eccessivi nella giustizia civile: in media sono necessari oltre 500 giorni per concludere un procedimento civile in primo grado».
Draghi ammonisce: «per l’Italia il NGEU rappresenta un’opportunità imperdibile di sviluppo, investimenti e riforme. L’Italia deve modernizzare la sua pubblica amministrazione, rafforzare il suo sistema produttivo e intensificare gli sforzi nel contrasto alla povertà, all’esclusione sociale e alle disuguaglianze. Il NGEU può essere l’occasione per riprendere un percorso di crescita economica sostenibile e duraturo rimuovendo gli ostacoli che hanno bloccato la crescita italiana negli ultimi decenni. L’Italia è la prima beneficiaria, in valore assoluto, dei due principali strumenti del NGEU: il Dispositivo per la Ripresa e Resilienza (RRF) e il Pacchetto di Assistenza alla Ripresa per la Coesione e i Territori d’Europa (REACT-EU). Il solo RRF garantisce risorse per 191,5 miliardi di euro, da impiegare nel periodo 2021-2026, delle quali 68,9 miliardi sono sovvenzioni a fondo perduto. L’Italia intende inoltre utilizzare appieno la propria capacità di finanziamento tramite i prestiti della RRF, che per il nostro Paese è stimata in 122,6 miliardi». Draghi sottolinea che «il Piano comprende un ambizioso progetto di riforme. Il governo intende attuare quattro importanti riforme di contesto – pubblica amministrazione, giustizia, semplificazione della legislazione e promozione della concorrenza».
E ancora: «il Governo ha predisposto uno schema di governance del Piano che prevede una struttura di coordinamento centrale presso il Ministero dell’economia. Questa struttura supervisiona l’attuazione del Piano ed è responsabile dell’invio delle richieste di pagamento alla Commissione europea, invio che è subordinato al raggiungimento degli obiettivi previsti. Accanto a questa struttura di coordinamento, agiscono strutture di valutazione e di controllo. Le amministrazioni sono invece responsabili dei singoli investimenti e delle singole riforme e inviano i loro rendiconti alla struttura di coordinamento centrale. Il Governo costituirà anche delle task force locali che possano aiutare le amministrazioni territoriali a migliorare la loro capacità di investimento e a semplificare le procedure». Draghi prevede che «nel 2026, l’anno di conclusione del Piano, il prodotto interno lordo sarà di 3,6 punti percentuali più alto rispetto all’andamento tendenziale […], l’occupazione sarà più alta di 3,2 punti percentuali. Gli investimenti previsti nel Piano porteranno inoltre a miglioramenti marcati negli indicatori che misurano i divari regionali, l’occupazione femminile e l’occupazione giovanile».
Al di là di un necessario approfondimento dei numeri previsti per i vari capitoli di spesa indicati – sia con riferimento al piano europeo sia per quello italiano che inevitabilmente si inscrive al suo interno– possiamo fin d’ora fare tre considerazioni di ordine generale, in termini di metodo, di obiettivi e di mezzi impiegati.
Di metodo. L’approccio europeo, e a cascata inevitabilmente anche quello italiano, è di tipo top-down, calato dall’alto in modo dirigistico-accentratore. Non è prevista la possibilità di intervenire riducendo la pressione fiscale, per creare le condizioni per una ripresa “dal basso”: aumenta così la presenza dello Stato nella vita sociale ed economica nazionale, all’interno di una rafforzata governance europea. Anche prescindendo da considerazioni sul rispetto del principio di sussidiarietà e della libertà di iniziativa, la semplice esperienza dovrebbe insegnarci che nessun pianificatore centraledisponeex-ante di tutte le informazioni necessarie per prendere le decisioni più efficienti ed efficaci di allocazione delle risorse, con la flessibilità poi di adattare nel tempo i propri piani e le proprie strategie implementative al variare, inevitabile, della situazione col passare del tempo. Il rischio è quello di sprecare ingenti risorse in cattivi investimenti, di aumentare le logiche clientelari e il potere dei vari enti locali, in un mix e un intreccio perverso di statalismo e di capitalismo clientelare. Senza trascurare gli effetti distorsivi sulla concorrenza, che dovrebbe essere libera e leale, mentre così viene falsificata. Sul fronte politico, il Piano vincolerà anche i governi futuri, diminuendo sempre più la sovranità nazionale, per lustri a venire. Sarà anche impossibile fare un bilancio ex-post dei risultati del Piano, perché si vedranno solo gli effetti di ciò che sarà stato fatto ma non di ciò che si sarebbe potuto fare se le risorse utilizzate fossero state lasciate ai privati e non accentrate e gestite politicamente.
A livello di obiettivi, anche se si possono condividere molti punti, dall’importanza della svolta digitale alla riforma della giustizia e della pubblica amministrazione (d’altronde chi potrebbe negarne l’importanza?), il focus sulla «rivoluzione verde», come anche sull’utilizzo di una terminologia oramai divenuta un vero e proprio “mantra”, dall’«inclusività sociale» al «genere», dalla «resilienza» alla «sostenibilità», richiama quei pregiudizi ideologici presenti nel Piano europeo e nell’Agenda ONU 2030 sul cosiddetto «sviluppo sostenibile», che ne rappresenta la grande cornice di riferimento a livello di governance mondiale. Si prende per buona la supposta “emergenza climatica di origine antropica”e quindi l’imperativo del Green Deal di decarbonizzare le economie europee entro il 2050, costi quel che costi. Nel piano della Commissione europea e nel piano attuativo italiano non si riconoscono, però, i veri problemi che affliggono l’Europa e l’Italia: la gravissima crisi della famiglia e il conseguente collasso demografico (non adeguatamente approfondito nel PNRR, a parte il riferimento all’assegno unico universale, di cui peraltro siamo ancora in attesa dei decreti attuativi, e il Family Act), l’oppressione fiscale e la decadenza culturale, frutto del rinnegamento delle radici cristiane che hanno costituito storicamente l’Europa. La cultura che ispira il progetto è diametralmente opposta alle radici culturali del continente europeo.
Un metodo dirigistico/accentratore, di per sé “ideologico”, si sostanzia inevitabilmente di contenuti anch’essi in parte ideologici: una governance europea e, in seconda battuta, degli Stati dell’area, con una “cabina di regia” accentrata, una totale mancanza di attenzione per la sussidiarietà, per il privato, per la libertà economica, per la scuola paritaria (nel Piano non se ne parla neppure), per la famiglia e il collasso demografico degli ultimi decenni, oltre che per i danni dell’invadenza pubblica e dell’oppressione fiscale.
Il rischio, al di là delle buone intenzioni del governo italiano, è quello di andare verso un New Normal, in cui famiglia, proprietà privata, libertà economica e sussidiarietà vengano ulteriormente compresse. Ci stiamo avviando verso l’«era post-pandemica» evocata dal “Grande Reset”: l’interventismo fiscale statale post-Covid, con politiche di investimento sempre più centralizzate, va quindi a chiudere il cerchio, completando il dirigismo europeo già operativo da oltre un lustro con le politiche monetarie di easing quantitativo attuate dalla Banca Centrale Europea.
Con che mezzi? Ovviamente a debito. La Commissione Europea e gli Stati non possono creare ricchezza dal nulla. Possono, però, emettere debito comune, facendo così un passo in avanti verso la prospettiva di un «Ministero del Tesoro comunitario», come evocato da Mario Draghi al 41° Meeting di Rimini di Comunione e Liberazione dello scorso agosto. Potrebbe essere un modo per ridurre ancora la sovranità degli Stati membri e accelerare la costituzione degli “Stati Uniti d’Europa” grazie al Covid-19. Ciò che preme ricordare è che il debito che finanzia gli investimenti da un lato accresce la già preponderante quota di ricchezza nazionale intermediata dalle élite politiche ed economico-finanziarie, a scapito della piccola e media impresa; dall’altro, è un’ipoteca sul futuro, una sorta di “tassa differita” che andrà a gravare sui contribuenti europei e italiani negli anni a venire. In altre parole, i benefici dei piani pubblici andranno a chi sarà più vicino ai rubinetti della spesa; i costi, invece, li pagheremo tutti.
Al di là limiti del PNRR evidenziati – a livello di metodo, obiettivi e mezzi impiegati–, peraltro inevitabili vista la cornice del Piano europeo di riferimento, il punto più critico appare l’inadeguata attenzione “concreta”alla crisi demografica italiana. È senz’altro positivo il segnale di attenzione al tema nel recente convegno organizzato dal Forum delle associazioni familiari, gli “Stati Generali della Natalità”, tenutosi il 14 maggio con la partecipazione di Papa Francesco, intervenuto insieme al capo del Governo e al presidente dell’Istat, Gian Carlo Blangiardo. Occorre davvero «coltivare il presente» se vogliamo avere un futuro, purché alle parole seguano i fatti: non “mancette di Stato”, bensì il riconoscimento del ruolo centrale della famiglia e della natalità. L’inversione di tendenza dell’inverno demografico che affligge l’Italia e i Paesi sviluppati, anche solo da un punto di vista meramente socio-economico, rappresenta il vero nodo da sciogliere per portare in equilibrio i sistemi sanitari, assistenziali e pensionistici e tornare davvero a crescere, senza l’aiuto di “droghe monetarie”, di nuovi debiti, senza, insomma, il dirigismo statalistico. Senza valorizzazione dal basso della famiglia e della natalità, della libertà di iniziativa privata e della sussidiarietà, sarebbe ingenuo pensare che la salvezza venga dall’alto, dalla “NEP”, ovvero la Nuova Politica Economica della “nuova normalità” post-pandemica.
Venerdì, 20 maggio 2021