Le risoluzioni da sole non intimidiscono i regimi totalitari, eppure marcano il territorio, stabilendo precedenti imprescindibili. Come certi piccoli, grandi eroi che insegnano il coraggio
di Marco Respinti
La Repubblica Popolare Cinese è retta da un regime neo-post-nazional-comunista che perseguita i gruppi religiosi e i popoli occupati in modo seriale e in quantità industriale. Uno dei gruppi più martoriati è il Falun Gong, noto anche come Falun Dafa, un nuovo movimento religioso cinese nato nel 1992. Inizialmente il regime lo tollerò e persino lo favorì, considerando le sue pratiche basate su una variante del qi gong, la ginnastica tradizionale cinese, un toccasana per il cittadino perfetto comunismo e moschetto. Ma, non riuscendo gradualmente a negare e a eliminare la dimensione spirituale del movimento radicata nei «Tre insegnamenti», cioè la matrice tradizionale della spiritualità cinese fatta di taoismo, confucianesimo e buddhismo, il regime iniziò a perseguitare i praticanti del Falun Gong in modo letteralmente spietato. Bandito ufficialmente dal 1999 (con altri gruppi), il movimento è da allora preda di una caccia all’ultimo sangue, che include anche la turpe pratica dell’espianto forzato di organi.
Il Falun Gong è da sempre la vittima eccellente di questa barbarie. I suoi praticanti vengono genericamente rubricati alla voce «prigionieri politici» o «di coscienza» e letteralmente fatti a pezzi per alimentare un ricchissimo mercato nero dei trapianti che interessa tutto il mondo e su cui il regime fa gran conto economico. Il fenomeno è tristemente diffuso in tutta l’Asia, ma in Cina è una industria fiorente condotta con capillarità.
I documenti
La documentazione esiste da tempo ed è puntuale. Tutto iniziò il 6 luglio 2006 quando l’avvocato David Matas e l’ex parlamentare, entambi canadesi, David Kilgour (1941-2022) pubblicarono la madre di ogni ricerca sul tema, il Report into Allegations of Organ Harvesting of Falun Gong Practitioners in China. Il dossier venne poi aggiornato da nuove ricerche e nel 2007 produsse un altro rapporto, Bloody Harvest: Revised Report into Allegations of Organ Harvesting of Falun Gong Practitioners in China, il quale, due anni dopo, nel 2009, è divenuto un libro con lo stesso titolo e contenuti ulteriormente aggionati. Nel 2014, il ricercatore statunitense Ethan Gutmann, oggi Senior Research Fellow della Victims of Communism Memorial Foundation di Washington, pubblicò un’altra tessera fondamentale del mosaico, il libro The Slaughter: Mass Killings, Organ Harvesting, and China’s Secret Solution to Its Dissident Problem, preceduto nel 2012 da una importante raccolta di saggi, State Organs: Transplant Abuse in China, curata da Matas e da Torsten Trey, fondatore e direttore esecutivo dell’organizzazione Doctors Against Forced Organ Harvesting (DAFOH), e contente anche saggi di Kilgour, dello stesso Matas e di Gutmann. Quindi, assieme, Kilgour, Matas e Gutmann hanno realizzato un ulteriore aggiornamento di «Bloody Harvest» e di «The Slaughter», publicato il 22 giugno 2016.
Il poco che in Italia si sa di questo eccidio sistematico lo si è dovuto alle informazioni e ai filmati diffusi dal dissidente Wu Hongda, all’occidentale Harry Wu (1937-2016), libero dopo 19 anni trascorsi nei campi del lavoro forzato del regime cinese, morto in circostanze mai pienamente chiarite in Honduras, calunniato dopo la scomparsa e pressoché dimenticato da tutti.
Da questa enorme messe di documenti, in continuo aggiornamento, hanno quindi tratto forza le denunce di vari organismi internazionali come l’International Coalition to End Transplant Abuse in China, il China Tribunal nel 2019-2020 e DAFOH (autore della più recente panoramica sul tema, il 10 dicembre), nonché iniziative quali la “Universal Declaration on Combating and Preventing Forced Organ Harvesting” del 2021.
La politica
Ma il regime cinese gode di troppe complicità ed è al centro di troppi interessi perché si possa sperare che la tragedia della predazione di organi umani possa risolversi in modo semplice. Per questo sono di grande importanza le mosse politiche di portata internazionale, come la legge approvata, quasi all’unanimità, dalla Camera federale di Washington il 27 marzo 2023 onde porre un freno all’ecatombe e la risoluzione approvata dal Parlamento Europeo il 18 gennaio 2024.
In entrambe si denuncia infatti senza mezzi termine il regime cinese per quello che è stato definito il «genocidio freddo» del Falun Gong e si riconosce il tributo di sangue innocente versato dai suoi membri, i quali però, tristemente, oggigiorno non sono più le uniche vittime della predazione di organi. Altrettanto nettamente si punta il dito contro Pechino e si riconosce l’efferatezza di questo vero e proprio crimine contro l’umanità.
Certo i documenti da soli non servono a fermare i tiranni, e la Cina ha già mostrato in altre occasioni di non risentirne granché. Ma le decisioni politiche di questo tipo fissano un precedente importante, persino decisivo, permettendo ai drammi di uscire dalla pur vasta cerchia degli addetti ai lavori e interessare governi, parlamenti, organismi internazionali.
Uno contro tutti
Del resto, fino a che non verrà votata anche dal Senato federale di Washington, dove resta pendente, la legge approvata dalla Camera statunitense in marzo non sortirà il proprio effetto e le comprovata complicità di certi ambienti occidentali, autorevolmente denunciata nel settembre 2022 dall’ex presidente e dall’ex vicepresidente della U.S. Commission on International Religious Freedom, Nina Shea e Katrina Lantos Swett, continuerà a coprire la tragedia, lasciando impuniti i colpevoli. Ma un segnale confortante c’è.
La risoluzione del Parlamento Europeo utilizza il caso specifico di due coniugi cinesi per illuminare la tragedia di tutto il Falun Gong: il caso di Ding Yuande e della moglie Ma Ruimei. Furono arrestati il 12 maggio scorso senz’alcun mandato legale. Se in seguito Ma è stata rilasciata, Ding resta in carcere. Il 15 dicembre è stato condannato a tre anni di prigione e a quasi 2mila euro di multa per il solo reato di essere credente. Ora, la liberazione di Ma e la citazione del loro caso specifico in una risoluzione del Parlamento Europeo, una cosa che non accade esattamente tutti i giorni, la si deve al loro figlio, Ding Lebin, esule, instancabile nel battersi quotidianamente per portare il caso dei genitori ingiustamente perseguitati all’attenzione dei potenti, tanto che i potenti hanno cominciato a prestare orecchio.
Ho goduto della benedizione di poter intervistare Ding in luglio sul caso dei suoi genitori e di imparare dal suo coraggio. Questo e altro dirò oggi al Palais des Nations di Ginevra al convegno sulle violazioni dei diritti umani in Cina, organizzato dalla ONG francese CAP-Coordination des Associations & Particuliers pour la Liberté de Conscience alla vigilia dell’esame della situazione dei diritti umani in Cina da parte dell’ONU, nell’ambito della Universal Periodical Review cui vengono sottoposti tutti i Paesi ogni cinque anni.
Lunedì, 22 gennaio 2024