« Non vi è albero buono che produca un frutto cattivo, né vi è d’altronde albero cattivo che produca un frutto buono. Ogni albero infatti si riconosce dal suo frutto: non si raccolgono fichi dagli spini, né si vendemmia uva da un rovo. L’uomo buono dal buon tesoro del suo cuore trae fuori il bene; l’uomo cattivo dal suo cattivo tesoro trae fuori il male: la sua bocca infatti esprime ciò che dal cuore sovrabbonda. Perché mi invocate: “Signore, Signore!” e non fate quello che dico? Chiunque viene a me e ascolta le mie parole e le mette in pratica, vi mostrerò a chi è simile: è simile a un uomo che, costruendo una casa, ha scavato molto profondo e ha posto le fondamenta sulla roccia. Venuta la piena, il fiume investì quella casa, ma non riuscì a smuoverla perché era costruita bene. Chi invece ascolta e non mette in pratica, è simile a un uomo che ha costruito una casa sulla terra, senza fondamenta. Il fiume la investì e subito crollò; e la distruzione di quella casa fu grande” » (Lc 6,43-49).
+
I maestri normalmente parlavano volentieri delle “due vie”, della necessità di stare lontani dai falsi profeti o sottolineavano la necessità di portar frutti di opere buone. Qui Gesù non solo dovette sorprendere, ma scandalizzare molti! Si presenta infatti come il giudice del mondo nel giorno della finale resa dei conti (cfr. Mt 16,28; 25,11-12.31-46).
Il cuore di questa presentazione è rappresentato dalla figura del peccatori. Non sono – come ci aspetteremmo – serial killer, atei militanti, sovversivi senza Dio, o altre gente di questo genere – ma piuttosto persone che si professano cristiani! Sono loro che chiamano Gesù “Signore” e dichiarano di aver fatto miracoli in suo nome. A loro, nonostante la facciata accattivante, Gesù dice chiaro e tondo: « Non vi ho mai conosciuti ». Il significato è uno solo: la professione di essere religiosi non può diventare il sostitutivo del rapporto personale con Gesù e rimpiazzare l’obbligo di fare la volontà di Dio. Se tra quello che diciamo di credere e il nostro comportamento non c’è nessun rapporto, nessuna relazione, il nostro chiamare Gesù “Signore” è una bestemmia. Che questo atteggiamento sia reale anche ai nostri giorni lo possiamo facilmente constatare.
Quanti dicono a parole di amare la Chiesa cattolica e di essere figli obbedientissimi del Papa, mentre il loro comportamento concreto e il loro linguaggio quotidiano contraddice continuamente, e palesemente, le loro dichiarazioni. Così come quanti dicono di amare il magistero della Chiesa che si è espresso solennemente nel concilio ecumenico Vaticano II, quando, nella concretezza della vita, dicono, insegnano e praticano tutt’altro. La fede e la religione sono cose sante: guai a chi le usa come strumenti di potere o di comodo. Questa falsità, questa ipocrisia è un atteggiamento costante dell’uomo. Ma è proprio questa insincerità di fondo che Gesù condanna senza mezzi termini. La similitudine della casa costruita dallo stolto sulla sabbia e quella costruita dal saggio sulla roccia vuol essere un aiuto a comprendere i due atteggiamenti tipici davanti all’insegnamento di Dio e a quello di Gesù che non elimina ma perfeziona. In che cosa consiste l’essenza di questo comandamento nuovo che porta a compimento la Legge? Molti interpretano così il discorso della montagna: « rispetto alla via antica dei Dieci Comandamenti – quella che indicherebbe, per così dire, la via dell’uomo comune – il cristianesimo inaugurerebbe col discorso della montagna la via alta di un’esigenza radicale, nella quale si sarebbe rivelato un nuovo livello di umanesimo nell’umanità ».
Ma questo non sarebbe un vero passaggio di livello, sarebbe solo una impossibile e necessariamente deludente estrema radicalizzazione della legge. « Ma chi, in realtà, può dire di se stesso di essersi elevato al di sopra della “mediocrità” della via dei Dieci Comandamenti, di esserseli, per così dire, lasciati alle spalle come cosa scontata e di camminare ora sulle vie alte, nella “nuova Legge”? No, la vera novità del comandamento nuovo non può consistere nell’elevatezza della prestazione morale. L’essenziale proprio anche in queste parole non è l’appello alla prestazione somma, ma il nuovo fondamento dell’essere, che ci viene donato. La novità può derivare soltanto dal dono della comunione con Cristo, del vivere in Lui. […]. Ciò che conta è l’inserimento del nostro io nel suo (“non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me”: Gal 2,20) » (Joseph Ratzinger – Benedetto XVI, Gesù di Nazaret. Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2011, pp. 76-77). In parole povere: senza la grazia non è possibile essere cristiani (altrimenti saremmo degli eretici pelagiani). Che cosa è la grazia? È la vita di Gesù. Che cosa vuol dire accogliere liberamente la grazia? Vuol dire accettare di ri-vivere nella nostra vita la Vita di Gesù. Ovviamente Croce compresa… L’albero buono (δένδρον καλόν in Lc e δένδρον ἀγαθόν in Mt) non è puramente e semplicemente l’albero di una determinata natura da cui verrebbero necessariamente frutti di quella data natura (il riferimento al cuore lo fa capire chiaramente e d’altra parte qualunque agricoltore lo constata in continuazione), ma l’albero “lavorato” dall’uomo, soprattutto l’albero migliorato con innesti: il mio alberello si è lasciato innestare nell’albero bello e buono che è Gesù ed è diventato così capace di portare frutti buoni. I frutti propri di quell’albero che è l’uomo sono le sue parole. Nella misura in cui sono vere e innestate nella Parola incarnata, si “incarnano” a loro volta e diventano frutti concreti e meravigliosi.