« Gesù si trovava in un luogo a pregare; quando ebbe finito, uno dei suoi discepoli gli disse: “Signore, insegnaci a pregare, come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli”. Ed egli disse loro: “Quando pregate, dite: Padre, sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno; dacci ogni giorno il nostro pane quotidiano, e perdona a noi i nostri peccati, anche noi infatti perdoniamo a ogni nostro debitore, e non abbandonarci alla tentazione” » (Lc 11,1-4).
Il “Padre nostro” è riportato nei Vangeli in due versioni: una lunga, quella di Matteo, che riporta tutte e sette le domande – la forma che la Chiesa ha accolto nella sua preghiera liturgica e catechetica – e una breve, quella di Luca.
Sono diversi anche i contesti. Mentre Luca la mette in relazione con lo stupore dei discepoli a contatto della preghiera di Gesù, Matteo la inquadra in una catechesi sulla preghiera in generale. «Insegnaci a pregare» (Lc 11,1). Ma la preghiera, per essere autentica non deve sgorgare spontanea? Non deve fluire senza sforzo e senza artificio, come le parole della lingua materna? È talmente vero che essa corre spesso il rischio di ridursi ad esteriorità e a “chiacchiericcio”.
La preghiera ridotta a pura esteriorità diventa ancor più facile preda della distrazione e finisce per generare noia e fastidio. Rimane però altrettanto vero che noi dobbiamo imparare a pregare. Le parole devono esprimere i nostri pensieri per essere sincere, ma se riconosciamo che – davanti a Dio – i nostri pensieri sono veramente troppo meschini, poveri e insufficienti e spesso anche banali, allora comprendiamo che hanno bisogno di essere elevati, che ci vogliono delle parole che non vengono da noi.
Allora non sono più le parole che si debbono adeguare ai sentimenti, ma i sentimenti che si devono adeguare alle parole che Dio stesso ci suggerisce. « Quando pregate, dite ».
Il Santo del giorno: San Dionigi e compagni