In quel tempo, Gesù disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri:
«Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano.
Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: “O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo”.
Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”.
Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato» (Luca 18,9-14).
Le parole con le quali Gesù commenta la preghiera rispettivamente del fariseo e del pubblicano al Tempio costituiscono una delle massime evangeliche da sempre incisive ed efficaci per la formazione di un comportamento autenticamente e pienamente umano, cioè cristiano. In una buona catechesi, animata dall’afflato dottrinale e spirituale, la prima cosa da imparare è che la preghiera, pia elevazione dell’anima a Dio, è appunto suo dono (cfr. CCC 2559). Essa parte non dall’altezza dell’orgoglio, bensì da un cuore umile e contrito. Infatti è colui che si umilia ad essere esaltato. Noi dobbiamo riconoscere di non sapere nemmeno cosa sia conveniente domandare e che dunque è necessario lasciarci guidare dallo Spirito, che scruta i nostri cuori e intercede per noi secondo i disegni di Dio (cfr. Rm 8,26-27).
A partire dall’umiltà, la pagina evangelica della Santa Messa odierna attira la nostra attenzione sulla vera comprensione del valore delle opere nella giustificazione dei peccati, che troveremo nell’elaborazione teologica paolina (cfr. Rm 3,28; 9,32; Gal 2,17-21; Ef 2,8-10). Qui intanto l’evangelista Luca riporta la parabola con cui Gesù dona il suo elevato insegnamento sulla preghiera con sublime e semplice profondità. Egli da un lato smaschera nel fariseo l’uomo autosufficiente e presuntuoso, arbitrariamente persuaso di essere giusto solo perché compie scrupolosamente e anche in modo sovrabbondante le opere prescritte. Dall’altro attira l’attenzione sul pubblicano, consapevole di essere soltanto un povero peccatore, bisognoso del perdono di Dio, a cui si rivolge con umile fede per chiedere misericordia. Questi viene colmato del consolante perdono di Dio misericordioso, l’altro invece resta nel peccato, cioè in una vita amara, fatta di solitudine e isolamento, e dalla quale estromette la paterna presenza di Dio.
In questa parabola troviamo le indicazioni per un vero progresso nella vita personale e comunitaria. Dal Vangelo impariamo ancora una volta che la salvezza e il progresso, in tutti i sensi, sono un dono alla famiglia e alle società che ne derivano e che, umilmente, si fondano sulla legge naturale dei Comandamenti e sulla grazia dei Sacramenti di Gesù e della Chiesa. La mentalità del funzionario inappuntabile che osserva certe regole secondo la sua prospettiva ideologica, magari moderata, ma senza l’ossequio alla verità tutta e intera, ossia a Dio uno e trino, è semplicemente inconcludente, anche quando non apre alla paralisi e al disordine sociale.