« Come infatti la pioggia e la neve scendono dal cielo e non vi ritornano senza avere irrigato la terra, senza averla fecondata e fatta germogliare, perché dia il seme a chi semina e il pane a chi mangia, così sarà della mia parola uscita dalla mia bocca: non ritornerà a me senza effetto, senza aver operato ciò che desidero e senza aver compiuto ciò per cui l’ho mandata » (Is 55,10-11).
La Parola è potente, però deve essere accolta. Questo “però” non deve essere inteso come una condizione, perché l’efficacia della Parola è incondizionata, ma come una sua necessità intrinseca.
Parlare indica una relazione. Se parlo ad un muro non c’è relazione e quindi non c’è neppure parola. Se uno ascolta e non comprende, cioè non trattiene la parola in sé, non c’è relazione, non c’è ascolto vero.
Perché uno non la “trattiene”? Spesso perché non la capisce. Trattiene solo ciò che capisce e dunque non trattiene la Parola di Dio che non capisce. Non c’è una relazione di fede, che consiste proprio nell’accogliere ciò che non si capisce: « La fede è […] prova di ciò che non si vede » (Eb 11,1).
Se qualcuno incomincia a trattenere ciò che non capisce con amore, allora (e solo allora) inizia a comprendere. Lo aveva già intuito Aristotele: « Bisogna infatti che creda colui che impara [δεῖ γὰρ πιστεύειν τὸν μανθάνοντα] » (Aristotele, Confutazioni sofistiche 2: 165b 3].
Lo scolaretto deve avere fiducia nel maestro, se questa fiducia manca non imparerà mai nulla!