« I suoi genitori si recavano ogni anno a Gerusalemme per la festa di Pasqua. Quando egli ebbe dodici anni, vi salirono secondo la consuetudine della festa. Ma, trascorsi i giorni, mentre riprendevano la via del ritorno, il fanciullo Gesù rimase a Gerusalemme, senza che i genitori se ne accorgessero. Credendo che egli fosse nella comitiva, fecero una giornata di viaggio e poi si misero a cercarlo tra i parenti e i conoscenti; non avendolo trovato, tornarono in cerca di lui a Gerusalemme. Dopo tre giorni lo trovarono nel tempio, seduto in mezzo ai maestri, mentre li ascoltava e li interrogava. E tutti quelli che l’udivano erano pieni di stupore per la sua intelligenza e le sue risposte. Al vederlo restarono stupiti, e sua madre gli disse: “Figlio, perché ci hai fatto questo? Ecco, tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo”. Ed egli rispose loro: “Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?”. Ma essi non compresero ciò che aveva detto loro. Scese dunque con loro e venne a Nàzaret e stava loro sottomesso. Sua madre custodiva tutte queste cose nel suo cuore » (Lc 2,41-51).
Noi oggi facciamo un po’ fatica a mettere a fuoco il significato della “memoria”. Lo sviluppo delle tecnologie che “fissano” le parole su supporti materiali (scrittura, stampa, informatica) e ne facilitano il “richiamo” ci hanno progressivamente indotto – paradossalmente – a “dimenticare la memoria”.
Per chi viveva in una cultura orale invece, in cui la scrittura o non esisteva o era competenza di pochi professionisti e – a maggior ragione – la stampa e l’informatica appartenevano ad un futuro ben difficilmente prevedibile, la memoria aveva una importanza che noi facciamo fatica anche soltanto a concepire.
Per farlo dovremmo provare ad immaginare un mondo in cui per non dimenticare qualcosa di ben detto ed importante, l’unica possibilità era quello di “impararlo a memoria” e l’unico modo di assicurarne la sopravvivenza per il futuro era quello di trasmetterlo ad altri in modo così vivo, convincente e coinvolgente che anche loro si preoccupassero, prima che la parola tacesse con loro nella tomba, di far sì che altri se ne prendessero cura allo stesso modo.
Questa catena, questo susseguirsi di onde, l’una mossa dall’altra, come quando si getta un sasso nello stagno, costituisce quell’evento così importante per la vita e la storia dell’uomo che si chiama “tradizione”. Ma, appunto, una volta che gli strumenti di conservazione si sono moltiplicati e incredibilmente perfezionati, a che serve più la memoria? Per conservare le parole di Dio, non basta il libro che la contiene, cioè la Bibbia?
Sappiamo che questo fu proprio – in epoca moderna – un punto di scontro non secondario tra cattolici e protestanti. Eppure basterebbe questa semplice osservazione: la parola è fatta per essere viva, cioè “detta” e quindi per essere ascoltata e accolta ed essere poi di nuovo detta (cfr. Rm 10,14-15). Essa non sta da sola. Parlare vuol dire comunicare e quando qualcuno “parla da solo” manifesta un sintomo preoccupante…
Quando una parola è veramente accolta? Quando si è in grado di riprodurla perfettamente, nella materialità del suo suono? Se fosse così il migliore ascoltatore sarebbe il registratore… A volte quando si discute e non ci si capisce, l’uno dice all’altro: “non mi ascolti”. E se l’altro risponde: sono in grado di ri-dirti, “alla lettera” tutto quello che mi hai detto, comprendiamo bene che ciò non è sufficiente.
La comunicazione è qualcosa di più profondo e “spirituale” di una pura riproduzione di suoni, di segni o di onde. Ri-cordare vuol dire custodire nel cuore e memorizzare vuol dire custodire con ricerca, come fecero Maria e Giuseppe che cercavano Gesù.