« Scese dunque con loro e venne a Nàzaret e stava loro sottomesso » (Lc 2,51); « Non fate nulla per rivalità o vanagloria, ma ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a se stesso. Ciascuno non cerchi l’interesse proprio, ma anche [questo “anche” però manca nei principali manoscritti greci] quello degli altri. Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù: egli, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini. Dall’aspetto riconosciuto come uomo, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce » (Fil 2,3-8)
È stato notato dai Padri della Chiesa che nella santa famiglia di Nàzaret c’era evidentemente ordine, spirito di servizio. Però l’ordine procedeva in modo inverso rispetto alla dignità dei membri. Chi era il più importante di tutti? Gesù ovviamente. Chi obbediva a Maria e a Giuseppe ed era sempre disponibile ad eseguire i servizi che loro gli chiedevano? Gesù. Chi era più importante tra Maria e Giuseppe? Maria ovviamente perché era la Madre di Dio. Chi era sottomesso all’altro? Maria era sottomessa al suo sposo e lo serviva volentieri. Non è un dettaglio: cela il modello di un atteggiamento vero: chi è più importante deve essere disposto a servire. L’essere servo degli altri, il considerare gli altri superiori a noi e quindi il guardarli “dal basso in alto” è un atteggiamento profondamente cristiano. Il guardare diritto all’interesse di chi ci sta di fronte mettendo da parte il nostro – non semplicemente sommandolo al nostro (anche…) – è l’essenza di un autentico spirito di servizio. Questo atteggiamento tipicamente cristiano ha lasciato il segno in formule di saluto che, nel nostro Occidente, ci sono familiari: pensiamo al nostro “ciao”, che viene dal veneto “s’ciavo” e vuol dire: “sono tuo schiavo/servo”. Dall’italiano si è poi diffuso in un gran numero di lingue europee. O al “servus” diffuso nell’area mitteleuropea. Una parola che rimane per lo più priva di realtà, una pura espressione retorica, certo; ma la soluzione migliore qual’è? Farla sparire del tutto o sforzarsi di ridarle un significato reale? Servo, serva sono parole molto antipatiche per l’uomo moderno. Sono qualcosa di paragonabile ad un insulto. È per questo che si cerca di farle sparire dall’uso comune. Così al posto di “donna di servizio” si usa “collaboratrice domestica”. Ed è giusto fare così, proprio nella misura in cui il termine è diventato offensivo. Ci dobbiamo però chiedere: perché è diventato offensivo? Che cosa ci sta dietro a questa evoluzione del significato? Qualcuno penserà: ‘è solo una questione di parole’. Il che è vero, ma non bisogna mai dimenticare però che le parole contano, perché sono le portatrici principali di quello che l’uomo ha nel cuore e ripetute con consapevolezza contruibuiscono a forgiare gli atteggiamenti del cuore. Se leggiamo con attenzione la Bibbia scopriamo senza troppa difficoltà che la parola servo o serva, ha spesso un significato molto molto positivo. Troviamo in particolare nel profeta Isaia quelli che gli esegeti hanno convenuto chiamare i quattro “canti del servo del Signore”, al cui centro sta la figura misteriosa di un “servo” che attraversa esperienze di terribile umiliazione e sofferenza, ma, proprio attraverso di esse e mediante esse, si rivela un servitore perfetto di Dio, raggiungendo così gloria, trionfo e vittoria. I cristiani non hanno tardato a riconoscere in questa figura un’immagine del Messia e a riconoscere nelle vicende descritte dai canti una prodigiosa prefigurazione di quello che è successo storicamente nella vita di Gesù. L’espressione “servo del Signore” è un chiaro titolo messianico che esprime in grande profondità l’intima essenza della missione e della natura del Messia. D’altra parte troviamo questo riconoscimento sulla bocca di Gesù stesso: « […] il Figlio dell’uomo, […] non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti » (Mt 20,28); « […] chi è più grande, chi sta a tavola o chi serve? Non è forse colui che sta a tavola? Eppure io sto in mezzo a voi come colui che serve » (Lc 22,27). L’episodio della lavanda dei piedi lo mette in luce in modo molto concreto. Secondo lo stile e il metodo pedagogico e retorico dei rabbini, Gesù compie un gesto “strano”, che colpisce profondamente i suoi ascoltatori. Poi, nel mezzo del loro stupore e della domanda che sorge nel loro cuore, spesso senza il coraggio di farla esplicitamente, effonde il suo insegnamento. « Quando ebbe lavato loro i piedi, riprese le sue vesti, sedette di nuovo e disse loro: “Capite quello che ho fatto per voi? Voi mi chiamate il Maestro e il Signore, e dite bene, perché lo sono. Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri. Vi ho dato un esempio, infatti, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi” » (Gv 13,12-15). Il gesto compiuto dal Maestro è infatti ‘strano’ e fortemente paradossale. Lavare i piedi non era strano nel contesto del tempo in cui le persone calzavano sandali e le strade non erano asfaltate; era anzi un gesto assolutamente normale e in qualche modo dovuto ad un ospite che si accoglieva in casa. Lo ‘strano’ consisteva nel fatto che normalmente a compierlo era l’ultimo della casa, il servitore, non il padrone di casa, non certamente la persona più importante. Eppure qui è proprio colui che è importante a compierlo! Non occultando la sua importanza o distruggendola («Voi mi chiamate il Maestro e il Signore, e dite bene, perché lo sono »), ma rivelandone l’essenza più intima. Pensiamo ad una mamma con in braccio il suo bimbo: chi è più importante in autorità? Certamente la mamma. Chi soprattutto viene servito? Il bambino certamente. Servire allora non è umiliante, perché svela la vera grandezza. Chi non serve nessuno, perché è prigioniero del suo io e del suo orgoglio in realtà “non serve a niente”… « Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli; in verità io vi dico, si stringerà le vesti ai fianchi, li farà mettere a tavola e passerà a servirli » (Lc 12,37). Una volta giunti definitivamente alla vita eterna e “vera” si entrerà in una società in cui servire è bello, è gloria, è dignità suprema. Allora ‘servire’ non sarà più un disonore, ma una manifestazione di gloria e di bellezza. Questo è già – in radice – vero anche quaggiù (pensiamo alla mamma…) ed è una verità che il cristiano è tenuto a far sua nella vita, avendo come aiuto materno ed esempio affascinante la vita della Madonna: « Allora Maria disse: “Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola” » (Lc 1,38); « […] ha guardato l’umiltà della sua serva. D’ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata » (Lc 1,48). Pensiamo alla formula che ricorre nei messaggi di Medjugorje: “grazie per aver risposto alla mia chiamata”… L’autorità, quando è vera ed “autorevole”, si presenta sempre come un servizio che rispetta e non umilia. Se ci sono umiliazioni nella vita, non è mai Dio a causarle direttamente: le permette soltanto ed è stato lui a portarle su di sé per darci l’esempio.