« Vedendo le folle, Gesù salì sul monte: si pose a sedere e si avvicinarono a lui i suoi discepoli. Si mise a parlare e insegnava loro dicendo: Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli. Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati. Beati i miti, perché avranno in eredità la terra. Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati. Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia. Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio. Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli. Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli. Così infatti perseguitarono i profeti che furono prima di voi » (Mt 5,1-12)
Matteo mette in evidenza che Gesù è il nuovo Mosè che porta a compimento la legge. Anche Gesù, come Mosè parla dalla montagna (che qui è solo un leggero promontorio ed ha un significato evidentemente simbolico) e parla con una autorità inaudita: chi può permettersi di promulgare una legge paragonabile a quella di Mosè? Chi può permettersi di perfezionarla? Dio solo evidentemente. Qui il mistero di Gesù appare con grande evidenza. La parola “beati” potrebbe essere tradotta con “fortunati” e “beati voi” con “congratulazioni a voi”. Il termine “fortunati” deve però essere purificato dal suo richiamo a circostanze casuali: qui la “fortuna” dipende da un disegno sapiente e trascendente di salvezza che anima dal profondo la storia. Per interpretare questo discorso chiediamo aiuto al grande teologo Joseph Ratzinger: «[…] il Discorso della montagna. Che cos’è? Con questa grande composizione in forma di discorso Matteo ci presenta Gesù come il nuovo Mosè, precisamente in quel senso profondo che precedentemente, nel contesto della promessa di un profeta fatta nel Libro del Deuteronomio, si è reso a noi evidente» (Joseph Ratzinger – Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, Rizzoli, Milano 2007, p. 88). Mosè parlava con Dio come un amico parla con un amico… Però – nonostante la grandezza di Mosè – qualcosa mancava, e qualcosa di essenziale. Mosè dice a Dio: «Mostrami la tua Gloria!» (Es 33,18). Ma Dio non può soddisfare in pieno la richiesta di Mosè: «[…] tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo» (v. 20). Perché un uomo possa vedere Dio deve morire… Parole oscure e ricche di mistero. Certamente qui si rimanda ad una vita che è oltre la morte, ma non solo. Si fa riferimento al fatto che l’uomo per “vedere Dio” deve essere liberato dalla prigionia di un peccato che lo chiude nel suo egoismo e nel suo orgoglio. Prigionia da cui, da solo, non può liberarsi. Ci vuole un nuovo Mosè. Mosè è salito sulla montagna per portare al popolo, dall’incontro con Dio, le tavole della legge, ed ecco che « Vedendo le folle, Gesù salì sulla montagna e, messosi a sedere, gli si avvicinarono i suoi discepoli » (Mt 5,1). La montagna di Mosè, il Sinai, è imponente. La montagna di Gesù, ai bordi del lago di Galilea, è modesta. Il Sinai è un luogo desertico e la manifestazione di Dio è letteralmente terrificante… Il luogo dove parla Gesù è semplice ed ameno. La lettera agli Ebrei sottolinea la differenza in questo modo: « Voi infatti non vi siete accostati a un luogo tangibile e a un fuoco ardente, né a oscurità, tenebra e tempesta, né a squillo di tromba e a suono di parole, mentre quelli che lo udivano scongiuravano che Dio non rivolgesse più a loro la parola; non potevano infatti sopportare l’intimazione: Se anche una bestia tocca il monte sia lapidata. Lo spettacolo, in realtà, era così terrificante che Mosè disse: Ho paura e tremo. Voi vi siete invece accostati al monte di Sion e alla città del Dio vivente, alla Gerusalemme celeste e a miriadi di angeli, all’adunanza festosa e all’assemblea dei primogeniti iscritti nei cieli, al Dio giudice di tutti e agli spiriti dei giusti portati alla perfezione, al Mediatore della Nuova Alleanza e al sangue dell’aspersione dalla voce più eloquente di quello di Abele » (Eb 12,18-24). Erik Peterson vede qui una allusione all’esperienza che i cristiani fanno nella celebrazione eucaristica, perché in essa soprattutto, ma non esclusivamente, si manifesta la differenza tra la legge antica e la legge nuova. Questa differenza ha portato spesso a fraintendere il compimento portato da Gesù come una abolizione della legge antica o un suo “attenuamento”. Come se la legge antica fosse fatta di rigore e la legge nuova lo avesse puramente e semplicemente annullato, facilitando e semplificando le cose nel senso di una morale che ha il suo centro e il suo fondamento nell’io individuale. «Le Beatitudini vengono non di rado presentate come l’antitesi neotestamentaria del Decalogo, come, per così dire, l’etica più elevata dei cristiani nei confronti dei comandamenti dell’Antico Testamento. Questa interpretazione fraintende completamente il senso delle parole di Gesù. Gesù ha sempre dato per scontata la validità del Decalogo […]; il Discorso della montagna riprende i comandamenti della Seconda tavola e li approfondisce, non li abolisce […]; ciò si opporrebbe diametralmente al principio fondamentale premesso a questa discorso sul Decalogo: “Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non son venuto per abolire, ma per dare compimento. In verità vi dico: finché non siano passati il cielo e la terra, non passerà dalla Legge neppure un iota o un segno, senza che tutto sia compiuto” (Mt 5,17s) » (Joseph Ratzinger – Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, Rizzoli, Milano 2007, pp. 93-94). Certamente la legge nuova è dolce e leggera (cfr. Mt 11,30) perché è fatta di grazia, di dono gratuito di Dio a cui il “povero” si abbandona: « La Legge nuova è la grazia dello Spirito Santo » (Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1966). Ma è ancora più esigente dell’antica, essendone il perfezionamento. « Anche la nuova bontà del Signore non è acqua zuccherata. Lo scandalo della croce è per molti più insopportabile di quanto lo era una volta il tuono del Sinai per gli israeliti. Sì, essi avevano ragione a dire: se Dio parla con noi “moriremo” (Es 20,19). Senza un “morire”, senza il naufragio di ciò che è soltanto nostro, non c’è comunione con Dio, non c’è redenzione » (Ibidem, p. 91). Le beatitudini sono come «una nascosta biografia interiore di Gesù, un ritratto della sua figura» (Ibidem, p 98). Se Mosè aveva detto a Dio: « mostrami la tua Gloria! », Filippo chiede a Gesù: « […] mostraci il Padre e ci basta » (Gv 14,8), ricevendo questa decisiva risposta: « Chi ha visto me ha visto il Padre » (v. 9). “Vedere Gesù” però non può rimanere un fatto estetico e distaccato. Per vederlo veramente – e in lui vedere Dio – bisogna vivere come lui, cioè vivere le beatitudini. « Il loro significato non può essere spiegato solo in modo teorico: viene proclamato nella vita, nella sofferenza e nella misteriosa gioia del discepolo, che si è donato interamente al seguito del Signore. […] Le Beatitudini sono la trasposizione della croce e della risurrezione nell’esistenza dei discepoli » (Ibidem, p. 97). Gesù infatti è la verità e la verità non può esser colta veramente e compiutamente se non è “fatta” per mezzo dell’amore (cfr. Ef 4,15). Gesù via, verità e vita deve essere accolto nel cuore e con il cuore, con intelligenza e amore, con amore e intelligenza… Maria ci aiuta a realizzare questo supremo e decisivo miracolo. Il miracolo della nostra vita che cambia, si trasforma e viene divinizzata. La verità, una volta accolta nel cuore, diventa bontà; la bontà, una volta fatta nella vita concreta, diventa bellezza.