A fronte della gravissima crisi economica mondiale innescata dai lockdown conseguenti alla pandemia del Covid-19, le banche centrali giocano la carta estrema della «uscita inflazionistica dalla crisi», come dopo le guerre. Il rialzo dei prezzi di beni e servizi, cioè la perdita perseguita del potere d’acquisto del denaro con l’inflazione, è un bene o un male per l’economia? E per i piccoli risparmiatori? Domandarsi cui prodest può aiutare a capire meglio la complessità degli interessi in gioco.
di Maurizio Milano
Inflazione: che cosa significa?
Nell’accezione comunemente utilizzata ai giorni nostri, con il termine “inflazione” si intende la variazione nel tempo degli indici dei prezzi di beni e servizi. In una seconda accezione, più articolata, che è quella tradizionale, mantenuta dalla Scuola Austriaca di economia, si fa riferimento invece all’estensione (dal latino inflare, gonfiare) della quantità nominale dei mezzi di pagamento da parte del sistema creditizio oltre la quantità che sarebbe prodotta dal libero mercato, con vari effetti possibili, tra cui certamente anche, ma non solo, il rialzo del costo del carrello della spesa.
Il sistema monetario moderno
Il 15 agosto 1971 il presidente statunitense Richard Nixon (1913-1994), stremato dalle spese per la guerra in Vietnam e dall’onerosità del programma di welfare soprannominato «Great Society», a fronte dell’insufficienza delle riserve auree annunciò a Camp David la sospensione della convertibilità del dollaro in oro (1 oncia d’oro=35$ Usa), seguita nel dicembre dello stesso anno dallo «Smithsonian Agreement», che pose fine agli accordi di cambio fisso tra le principali divise mondiali e il dollaro stesso, come era stato sancito a Bretton Woods nel 1944. Con il tramonto definitivo del sistema monetario a cambio aureo (il cosiddetto gold exchange standard), non avendo più vincoli di convertibilità, le banche centrali hanno acquisito la facoltà di creare liberamente denaro ex-nihilo: sia quando aumentano la base monetaria per fare prestiti alle banche commerciali, sia quando espandono faustianamente i propri bilanci per acquistare asset sui mercati finanziari (il cosiddetto quantitative easing), principalmente obbligazioni governative, obbligazioni private e titoli obbligazionari legati ai mutui. Anche le banche commerciali, ed è meno intuitivo, creano moneta bancaria dal nulla ogni qualvolta erogano un prestito: il meccanismo della riserva obbligatoria frazionaria consente infatti di moltiplicare il controvalore degli impieghi, nell’area euro fino a un massimo teorico pari a 100 volte tanto i depositi (stante la riserva minima attualmente fissata dalla Banca Centrale Europea all’1%). In entrambi i casi si tratta di denaro fiat, moneta fiduciaria non convertibile, comunemente accettata perché considerata dagli stati legal tender, cioè mezzo legale di pagamento. Dato il meccanismo di moltiplicazione dei depositi e la garanzia di prestatore di ultima istanza delle banche centrali, il sistema monetario moderno è quindi strutturalmente inflazionistico, per lo meno nell’accezione austriaca sopra richiamata, in quanto “gonfia” sistematicamente, virtualmente ad libitum, la quantità dei mezzi di pagamento disponibili. Negli ultimi lustri, infatti, la liquidità globale è cresciuta in modo sempre più de-correlato rispetto alle dinamiche delle economie reali: l’aggregato monetario «M2» è passato da una ventina di «trillion» (1 trillion=1.000 miliardi) di dollari Usa ad inizio millennio ai 40 trln$ ai tempi della GCF (Grande Crisi Finanziaria) degli anni 2007-09 agli 80 trln$ pre-Covid ai circa 90 trln$ attuali (settembre 2020). Una crescita esponenziale.
Il sistema monetario moderno è sbilanciato lato debito
L’espansione creditizia sopra descritta – vale a dire l’inflazione vero nomine nell’accezione austriaca – alla lunga regge solo se vi è anche inflazione nella prima accezione, cioè solo se il denaro perde sistematicamente potere d’acquisto nel corso del tempo, contribuendo così a sgonfiare il valore dei debiti in termini reali. L’accelerazione nell’espansione creditizia, in particolare dopo la GCF conseguente alla bolla immobiliare scoppiata negli Usa nel 2007, ha prodotto sì una forte inflazione negli asset finanziari (la c.d. asset class inflation), spingendo le quotazioni azionarie e i corsi obbligazionari mondiali verso continui record, ma poca inflazione nel senso di aumento generalizzato dei prezzi di beni e servizi. Questo è avvenuto principalmente a causa della globalizzazione economica, che ha favorito una maggiore concorrenza e quindi una spinta al ribasso dei prezzi di materie prime, beni e servizi; a ciò si è aggiunto l’effetto calmierante sulla domanda finale, indotto dall’invecchiamento demografico. L’iper-liquidità creata dal sistema, quindi, è finora rimasta confinata prevalentemente dentro i circuiti finanziari: oltre alla speculazione finanziaria, il denaro a tassi negativi-nulli, o comunque bassissimi, ha fortemente incentivato l’indebitamento, pubblico e privato, cresciuto esponenzialmente fino a 250 trilioni di dollari Usa pre-Covid, oltre il 100% del PIL mondiale. Già nel novembre 2019 il presidente della Federal Reserve statunitense, Jerome Hayden Powell, ebbe a dichiarare: «il debito sta crescendo più velocemente dell’economia. Ė molto semplice. Ciò è per definizione insostenibile».
Lockdown post-Covid: forte crisi economica ed euforia sui mercati finanziari
A partire dal mese di febbraio 2020, le chiusure imposte dalla maggior parte dei governi mondiali per far fronte all’emergenza sanitaria hanno prodotto un fortissimo rallentamento economico, con un’impennata della disoccupazione senza precedenti. Ciò rende ancora più difficile sostenere il peso dei debiti accumulati, sia privati che pubblici. Questi ultimi sono per di più ulteriormente cresciuti sensibilmente nell’ultimo semestre per le politiche fiscali fortemente espansive attuate dai governi in risposta alla crisi. Mentre le economie mondiali hanno subìto una marcata contrazione – negli Stati Uniti non accadeva dalla Seconda guerra mondiale –, i circa 10.000 miliardi di dollari Usa di liquidità netta immessa dalle banche centrali a partire da metà marzo hanno “rigonfiato” la bolla finanziaria fatta scoppiare dal Covid a fine febbraio. Spinti dal fiume di liquidità, i mercati finanziari sono infatti risaliti verso i picchi pre-crisi, registrando addirittura nuovi massimi storici negli Usa: la discrasia crescente tra le dinamiche monetarie-finanziarie e quelle reali è un’ulteriore conferma di quel processo di “finanziarizzazione” dell’economia in atto da diversi lustri. Il Covid e le sue conseguenze sociali ed economiche accelerano l’insostenibilità di una dinamica che – occorre sottolinearlo – è già di per sé squilibrata, costringendo le banche centrali a spingere con più forza sul pedale dell’acceleratore monetario, che peraltro è stato (ed è) la causa principale della spinta all’indebitamento e alla formazione delle bolle finanziarie. Le banche centrali si sono infilate in un cul-de-sac e sono diventate sempre più ostaggio delle proprie politiche monetarie «non convenzionali».
Il macigno del debito mondiale e la “cura” inflazionistica
Se i debiti apparivano fuori controllo già prima del Covid, ora non ci sono più dubbi: molti stati sovrani, tra cui l’Italia, e molte grandi aziende private nel mondo andrebbero velocemente in default se dovessero pagare normali interessi passivi sui debiti contratti e rinnovassero quelli in scadenza. Non tanto per problemi di liquidità passeggera, quanto per una strutturale insolvibilità. Incombendo una crescita economica asfittica, due sono le strade percorribili per il rientro del debito sotto la soglia di guardia, con svariati mix tra i due estremi: procedere in trasparenza con dei default de iure, cioè con consolidamenti parziali o totali dei debiti fuori controllo; puntare a una sorta di default de facto, sgonfiando il valore reale dei debiti – e dei crediti –, proseguendo ancora per anni con l’attuale politica di “repressione finanziaria”, con tassi nominali schiacciati “politicamente” verso e sotto lo zero e, per lo meno negli auspici, una crescita generalizzata e significativa dei prezzi di beni e servizi. Quest’ultima via, subdola, è ovviamente più praticabile, ma porterebbe a un trasferimento graduale di ricchezza dai risparmiatori-creditori ai debitori, dalla “formica” alla “cicala”: quanto più negativi diventeranno i rendimenti reali (=«rendimenti nominali – tasso di inflazione»), tanto più veloce sarà l’abbattimento del valore reale di debiti e crediti, per la gioia dei debitori e la frustrazione dei creditori, in una sorta di “usura al contrario”. Nel contempo, con l’inflazione si abbasserebbe anche il potere di acquisto dei redditi fissi – salari, stipendi e pensioni –, che generalmente si adeguano in ritardo e spesso solo parzialmente al rialzo dei prezzi al consumo: si otterrebbe così lo stesso recupero di produttività che si avrebbe con una sforbiciata, di fatto impraticabile, ai redditi nominali. Il piccolo risparmiatore, insomma, è destinato a fare la fine della rana bollita.
Va sottolineato che la scelta inflazionistica non è una novità post-Covid: per rendere sostenibile la continua espansione creditizia secondo le logiche neo-keynesiane su cui si basa il sistema monetario attuale, tutte le Banche Centrali perseguono già da molti anni un obiettivo di inflazione positivo, «al di sotto ma prossimo al 2%». Ora, probabilmente, si vorrà andare anche oltre. A fine agosto, la Fed ha infatti alzato l’obiettivo: il nuovo target diventa un’inflazione media del 2%, così la Banca Centrale Usa potrà proseguire con tassi bassi e l’easing quantitativo anche qualora l’inflazione dovesse superare il 2%, compensando quegli anni passati in cui era al di sotto dell’obiettivo fissato. Le altre banche centrali mondiali seguiranno prima o poi l’esempio della «Fed», anche per evitare un altrimenti probabile, e altamente indesiderato, apprezzamento delle proprie divise contro il dollaro, con ricadute negative su esportazioni, ripresa economica ed effetti disinflazionistici per le rispettive aree monetarie. Non dimentichiamo che anche la BCE, alle prese con il rischio di frammentazione dell’area euro, vuole abbattere il valore reale dei debiti facendo salire i prezzi del carrello della spesa.
Chi paga il conto dell’inflazione?
Le banche centrali si stanno quindi confermando come il deus ex-machina della vita economica e finanziaria delle nazioni. Oggi risolvono i problemi che hanno creato ieri, domani si occuperanno dei problemi che stanno creando oggi, come un dentista che cura i denti cariati e, nel mentre, regala caramelle zuccherine ai propri pazienti. Nell’enciclica Quadragesimo Anno del 1931, a ridosso della Grande Depressione del 1929, Papa Pio XI (1922-1939) già denunciava il «funesto ed esecrabile internazionalismo bancario o imperialismo internazionale del denaro», un potere che «diviene più che mai dispotico in quelli che, tenendo in pugno il danaro, la fanno da padroni; onde sono in qualche modo i distributori del sangue stesso, di cui vive l’organismo economico, e hanno in mano, per così dire, l’anima dell’economia, sicché nessuno, contro la loro volontà, potrebbe nemmeno respirare». Dopo avere incentivato per anni l’azzardo morale, con forti guadagni sui mercati finanziari da parte di chi si è avvantaggiato del denaro facile immesso nei circuiti, le banche centrali ora presentano il conto, socializzando le perdite su quella classe media che non ha certamente beneficiato dell’asset class inflation degli ultimi anni. Come un “falsario di Stato” che manipola il valore del denaro, le banche centrali tentano di indurre una perdita di potere d’acquisto, imponendo così di fatto una “tassa occulta” su redditi e risparmi, violando i diritti di proprietà. Ovvio che non se ne parli in questi termini e si preferisca, invece, presentarla come la panacea per uscire dalla crisi. Se può sembrare cosa di poco conto un tasso di inflazione del 2% annuo – sempre che non si vada oltre – occorre pensare che con tassi nominali nulli, e quindi un rendimento reale negativo del 2% annuo, nell’arco di soli 10 anni il patrimonio finanziario del singolo risparmiatore dimagrirebbe di oltre un quinto in termini di potere d’acquisto. Non stupisce il fortissimo apprezzamento dell’oro, un rifugio sicuro di fronte al continuo debasement del denaro fiat (1 oncia d’oro=1.900 $Usa; +25% nell’ultimo anno; +5.329% dalla fine del gold exchange standard).
Effetti distorsivi dell’inflazione sull’economia reale
Ma non solo. L’iper-liquidità continuerà anche ad incentivare l’azzardo morale, sia sui mercati finanziari che nell’economia reale, portando a cattivi investimenti per la distorsione allocativa delle risorse causata dalla falsificazione dei tassi di interesse, oltre che del meccanismo di price discovery e dell’alterazione dei prezzi relativi degli asset dei beni e dei servizi (il cosiddetto «effetto Cantillon»); amplificherà i cicli economici e finanziari di boom-and-bust, cioè crescite artificiali seguite da crolli repentini, come capita sempre più frequentemente da inizio millennio; incentiverà ulteriormente l’indebitamento, favorito da tassi d’interesse reali negativi; terrà in vita imprese “zombie” cronicamente insolventi, drenando risorse ai danni di quelle sane e falsificando la libera e leale concorrenza; scoraggerà il risparmio, su cui si basano gli investimenti necessari per far crescere la produttività, e quindi i salari reali. Non illudiamoci, poi, che l’inflazione generi crescita economica reale e occupazione nel lungo periodo. Questa è solo una delle tante fallacie economiche che sopravvivono nonostante la storia economica ci abbia mostrato lunghi periodi di crescita economica correlati a una deflazione (vale a dire una discesa dei prezzi), oppure, specularmente, periodi di forte crisi e disoccupazione accompagnati da forti tensioni sui prezzi: pensiamo, ad esempio, alla cosiddetta «stagflazione» (stagnazione più inflazione) degli anni Settanta, che dimostrò l’inconsistenza della «curva di Phillips», la quale vorrebbe inflazione e disoccupazione inversamente correlate. Non è quindi l’economia reale che abbisogna di una inflazione che significhi un rialzo dei prezzi, come vorrebbe la narrazione ossessiva degli economisti mainstream e dei media finanziari, bensì la tenuta del sistema finanziario moderno costruito sull’espansione creditizia incontrollata, che ora rischia di collassare con prevedibili effetti disastrosi sulle stesse economie.
Che cosa possiamo attenderci dal «socialismo finanziario» delle banche centrali?
Stante il quadro delineato, la finanziarizzazione dell’economia proseguirà ad oltranza, addirittura aumenterà una sorta di «accanimento terapeutico» nei suoi confronti, secondo la logica del motus in fine velocior. Se le cose si mettessero davvero male, la prossima frontiera di acquisti da parte delle banche centrali – ben al di là dei loro mandati attuali – potrebbe estendersi ai titoli obbligazionari privati junk («spazzatura») e ai governativi sul mercato primario – monetizzando così i debiti, pubblici e privati, in un gigantesco bail-out –, oltre che allargarsi agli stessi titoli azionari quotati, in un accentramento senza precedenti della ricchezza privata nelle mani delle autorità monetarie; queste potrebbero portare il sistema verso tassi nominali negativi sui conti correnti, penalizzare l’uso del contante e introdurre proprie «divise digitali» con rendimenti fortemente negativi; potrebbero anche fare un utilizzo massivo del cosiddetto helicopter money, accreditando – con un semplice click del mouse – denaro fresco di “creazione” direttamente sui conti correnti dei cittadini, come già in parte è avvenuto. D’altronde si parla in molte sedi di «reddito universale di cittadinanza», cioè di una gestione “politica” della ricchezza creata. Un vero e proprio «socialismo finanziario», guidato da governi e banche centrali: il focus tenderà a spostarsi sempre più sugli aspetti redistributivi, con il rischio di un interventismo politico crescente con il pretesto di «gestire la crisi». Aumenteranno quindi le tensioni sociali e l’attività di lobbying dei crony capitalist per accaparrarsi la spesa pubblica – cioè il denaro dei contribuenti –, perdendo di vista la produzione di nuova ricchezza – che si fonda su risparmio, investimenti e accumulazione di capitale –, minacciata da margini di libertà economica già modesti e in ulteriore contrazione.
Il «paradigma della crescita a debito», in pendenza di inverno demografico e di disarticolazione delle famiglie e della società, richiede dosi crescenti di «droga monetaria» per stare in piedi e mostra sempre più le corde. La “vampirizzazione” del futuro è una predazione che si compie in particolare ai danni dei nostri figli, che saranno sempre in meno a pagare conti sempre più salati. La stabilizzazione del sistema finanziario perseguita con l’inflazione avrà come risvolto negativo anni di crescita economica asfittica, in cui solo alcuni continueranno a guadagnare. La demografia, poi, rimane sfavorevole. Le piramidi demografiche nei paesi sviluppati stanno infatti trasformandosi progressivamente in “funghi”: un “gambo” piccolo per via di un numero di nati in continuo calo, con contrazione conseguente anche della «popolazione in età lavorativa»; un “cappello” sempre più grande per via del numero crescente di anziani, che comporta maggiori costi sanitari e pensionistici, che si scaricano su una base produttiva in progressiva contrazione, facendo quindi diminuire la competitività dei sistemi economici. Anche se lo spettro della stagflazione – decrescita economica in presenza di forti dinamiche inflazionistiche – è al momento improbabile, la «torta della ricchezza» negli anni a venire faticherà a crescere in termini reali e la classe media ne uscirà malconcia. Non c’è da stupirsi, peraltro, che introducendo logiche socialiste si abbiano effetti di decrescita, tutt’altro che felice: d’altronde è sempre accaduto, ovunque nel mondo.
Che fare?
A cause reali non si possono opporre solamente o principalmente soluzioni monetarie e alchimie finanziarie: tali cure, infatti, portano in germe la crisi successiva, amplificando i cicli economici con crescite artificiali seguite da inevitabili tracolli, in un crescendo di interventismo pubblico e di contrazione degli spazi di libertà economica, come accaduto con frequenza sempre più ravvicinata da inizio millennio. Posto che non esistono soluzioni facili, queste devono cercarsi comunque nell’ambito dell’economia reale e preventivando tempi lunghi, rifuggendo dall’illusione monetaria. Pensando all’Italia, la semplificazione burocratica e amministrativa, la riduzione del perimetro dell’interventismo pubblico, il taglio della spesa pubblica e della pressione fiscale e contributiva, la riforma della giustizia, della scuola e della sanità pubblica – recuperando una logica sussidiaria a favore di una società e di un’economia davvero libere e responsabili – rimangono i veri rimedi per un cambio di prospettiva. E non solo nel nostro Paese. Porre la famiglia al centro, anche come soggetto economico, e quindi favorire la ripresa della natalità nel mondo sviluppato sono passi necessari e urgenti per riportare in equilibrio le strutture demografiche. Il suicidio demografico in atto nei Paesi “ricchi” è il frutto avvelenato del collasso culturale e morale dell’Occidente secolarizzato post-sessantottino, non è il risultato delle ricorrenti crisi economiche e finanziarie: semmai, ne costituisce una delle cause strutturali più importanti. Siamo dentro una crisi generazionale: occorre invertire la tendenza oggi perché i nostri figli possano vederne i frutti domani.
No, la soluzione non è l’inflazione, in nessuna delle due accezioni che abbiamo descritto. Non esistono scorciatoie. Non illudiamoci.
Venerdì, 25 settembre 2020