Come rilanciare il sistema Italia dopo la pesante crisi economica e sociale seguita alle misure di lockdown imposte dal governo per gestire l’emergenza sanitaria? Leggendo il piano varato dal governo, l’impressione è quella di trovarsi di fronte al solito approccio statalistico-assistenzialistico, che rappresenta invece una delle cause strutturali e “storiche” della mancata crescita del nostro Paese. La relazione del Presidente di Confindustria Carlo Bonomi ci fornisce qualche chiave di lettura.
di Maurizio Milano
In risposta all’iniziativa promossa dalla Commissione Europea, il 16 settembre 2020 il governo italiano ha trasmesso alle Camere il PNRR, ovvero il proprio piano di rilancio del Paese, contenuto nelle “Linee guida per la definizione del Piano nazionale di ripresa e resilienza”. Leggendo il PNRR, la prima impressione è quella di trovarsi di fronte a uno di quei piani strategici aziendali in cui l’abbondanza di termini inglesi e l’ambiziosità degli obiettivi annunciati è inversamente proporzionale alle risorse a disposizione nonché alla capacità di realizzarli. Il problema principale non è però soltanto quello di scarso realismo, il rischio elevato che rimanga sulla carta, un bel libro dei sogni o poco più. No, il nodo è che lo spirito che informa il documento è dirigistico e accentratore, oltre che assistenzialistico: un rischio evidenziato da Carlo Bonomi nel suo recente intervento “Il coraggio del futuro”, nella qualità di Presidente di Confindustria, alla sua prima assemblea annuale tenutasi a Roma il 29 settembre.
L’analisi di Bonomi.
«Ė tempo di azione comune, oppure non sarà un’azione efficace […] il danno per il Paese sarebbe immenso, e lo pagheremmo tutti. Per anni a venire», auspicando che la politica economica non aggiunga «ulteriore incertezza e sfiducia nel Paese». Bonomi lamenta «la mancanza di visione […] il proliferare della normativa, l’astrusità delle procedure amministrative, la dilatazione dei tempi giudiziari, la perdita di punti in ogni ranking internazionale», dalle competenze scolastiche al digitale. E prosegue: «Il Governo dovrà ora stabilire priorità per usare, in pochi anni, oltre 200 miliardi che ci vengono dall’Europa». Bonomi avverte del rischio delle derive statalistiche – che sia lo Stato imprenditore o lo Stato regolatore – oppure protezionistiche.
Uno dei nodi cruciali che il Paese deve affrontare, sottolinea il Presidente di Confindustria, è il futuro dei giovani, i più minacciati dal continuo declino: «non più occuparsi dei banchi, con o senza rotelle, o solo di nuovi centomila dipendenti da immettere in ruolo», pensando a «riforme che non guardino solo a chi nella scuola lavora, ma finalmente a chi la frequenta».
Bonomi evidenzia anche il crollo della natalità e le proiezioni demografiche catastrofiche, con un «calo di 4,6 milioni della popolazione in età attiva già nel prossimo decennio». Ammonendo che «occorre un welfare che collochi la natalità al centro delle priorità».
Bonomi mette poi il dito sulla piaga dell’inefficienza cronica della Pubblica Amministrazione, sottratta alla concorrenza di mercato. Prosegue poi criticando le politiche assistenzialistiche per il Sud, che continuano a non raggiungere gli obiettivi di convergenza. Sull’eterna “questione meridionale” il Presidente Bonomi ricorda quale sia il «freno prevalente all’attrattività degli investimenti nel Mezzogiorno: le infrastrutture, sia fisiche sia digitali, e la legalità». Non servono sussidi a pioggia, come l’esperienza ci ha insegnato.
Propone poi di applicare anche ai dipendenti privati la tassazione diretta mensile, come avviene ora per i 5 milioni di autonomi, per sgravare le imprese dall’onere ingrato di sostituto d’imposta e forse soprattutto, ma Bonomi non lo dice, per fare emergere il peso della pressione fiscale sulla busta-paga.
In merito all’utilizzo del Recovery Fund (il c.d. Next Generation EU),Bonomi ammonisce che questo «deve esprimere una visione di fondo della crescita dell’Italia»: non promette bene che «se sommiamo le oltre 500 proposte avanzate nel complesso dai diversi Ministeri, quelle delle Regioni, delle Città metropolitane e dell’ANCI, si arriva a un multiplo di 3 o 4 volte i 208 miliardi del Recovery Fund». Il rischio è quello di sperperare denaro senza ottenere risultati tangibili, se non un ulteriore incremento dell’indebitamento del Paese. Già, perché “solo” 63,8 dei 208 miliardi del Recovery Fund previsti per l’Italia (sui 750 complessivi) sono a fondo perduto, gli altri 127,6 sono dei prestiti. Confindustria indica «l’obiettivo di massimizzare il ruolo di motore dello sviluppo del sistema delle imprese e del lavoro, e dare una nuova centralità alla manifattura», chiedendo un «grande e comune Patto per l’Italia […] alle istituzioni, alla politica, a tutti i maggiori soggetti economici e sociali del nostro Paese». Per l’industria Bonomi ricorda che «i sussidi non sono per sempre, né possiamo o vogliamo diventare un Sussidistan, come è stato recentemente scritto». E neppure serve «ulteriore indebitamento sia pur con garanzia pubblica».
Bonomi lamenta poi che «non si scorge ancora una prospettiva solida di interventi che diano sostenibilità al maxi debito pubblico italiano, il giorno in cui la BCE dovesse terminare i suoi interventi straordinari sui mercati grazie ai quali oggi molti si illudono che il debito non sia più un problema». Riallacciandosi alla distinzione effettuata dall’ex-governatore della Bce, Mario Draghi, tra “debito buono”, quello che finanzia gli investimenti, e “debito cattivo”, quello per coprire la spesa corrente, ricorda lo sbilanciamento della spesa pubblica su voci “correnti”, mentre solo gli investimenti fanno crescere la produttività e la ricchezza.
Sul tema delle relazioni industriali Bonomi afferma che «sin qui, è stato protratto l’errore di vietare per legge i licenziamenti, che non ha evitato una enorme perdita occupazionale, ma ha solo impedito alle imprese di ristrutturare e di assumere per ripartire». Chiede poi di rivedere il reddito di cittadinanza, stante la sua evidente inefficacia per favorire l’inserimento nel mondo del lavoro.
Il Piano del Governo.
Caetera desiderantur, certamente, ma a fronte delle osservazioni puntuali di Confindustria, di cui apprezziamo particolarmente il richiamo al suicidio demografico che zavorra la crescita del Paese e l’avvertimento contro derive statalistiche, assistenzialistiche e protezionistiche, leggendo il PNRR ci troviamo invece di fronte al solito piano deciso dall’alto, in cui si pretende di guidare l’evoluzione economica e sociale del Paese verso obiettivi decisi a tavolino o recepiti in qualche modo da linee guida europee, come il Green New Deal.
Ciò che preoccupa non è quello che si dice, ma soprattutto la filosofia che lo ispira, oltre a quello che non si dice. Uno dei problemi principali dell’Italia è l’incapacità di crescere, la scarsa produttività degli ultimi vent’anni, e viene riconosciuto. Non si dice però che l’elevatissima pressione fiscale e contributiva italiana mina alla radice la capacità competitiva del Paese, e se si parla di fisco è solo per la consueta reprimenda dell’evasione fiscale. Si lascia poi intendere che si potrà sì abbassare il peso fiscale sul lavoro, ma contestualmente inasprendo la tassazione sugli immobili, attraverso la revisione delle rendite catastali. Si inserisce tra gli obiettivi il miglioramento della Pubblica Amministrazione, sicuramente inefficiente e inefficace, ma non si dice che questa dovrebbe dimagrire, parallelamente alla diminuzione del perimetro di interventismo sociale ed economico del pubblico. Si ricorda la scarsa efficacia e qualità del sistema scolastico, ma non si dice che occorrerebbe valorizzare la scuola paritaria (che riceve contributi pari a circa l’1% del costo annuo del sistema di educazione pubblica a fronte di circa un decimo della popolazione studentesca complessiva). Si parla della sanità pubblica, ma nessun accenno alla valorizzazione delle strutture private convenzionate. Si parla del divario Nord-Sud ma il rischio è quello di ricadere nelle solite politiche assistenzialistiche che tanto male hanno fatto ai contribuenti e agli stessi assistiti, perché li hanno mantenuti in una condizione di dipendenza.
La sussidiarietà, questa sconosciuta.
Insomma, la visione che ispira il documento governativo è quella statalistica, che vede la società civile come un corpo da cui attingere risorse e da guidare. Tutto il contrario di quella visione “sussidiaria”, tanto cara alla dottrina sociale della Chiesa, che vorrebbe una società e un’economia libere e responsabili, che possono svilupparsi organicamente dal basso, a partire dalla famiglia e dai corpi intermedi. Una società dove i corpi maggiori non devono interferire con la vita propria di quelli inferiori, se non nella prospettiva di aiutarli a crescere e a essere autonomi e responsabili. Lasciando alle famiglie il grosso della ricchezza da loro prodotta, dimostrando con i fatti di rispettare il risparmio riconosciuto tra i valori costituzionali. Il principio di sussidiarietà, già presente nelle riflessioni del sociologo ed economista francese Frédéric Le Play (1806-1882) e nei documenti di Papa Leone XIII (1878-1903), è stato formulato esplicitamente nel 1931 nell’enciclica Quadragesimo anno da Papa Pio XI (1922-1929). Tale principio è poi ribadito chiaramente da san Giovanni Paolo II (1978-2005) nella lettera enciclica Centesimus annus del 1991: al cap. 48 il pontefice polacco afferma che «Disfunzioni e difetti nello Stato assistenziale derivano da un’inadeguata comprensione dei compiti propri dello Stato. Anche in questo ambito deve essere rispettato il principio di sussidiarietà: una società di ordine superiore non deve interferire nella vita interna di una società di ordine inferiore, privandola delle sue competenze, ma deve piuttosto sostenerla in caso di necessità ed aiutarla a coordinare la sua azione con quella delle altre componenti sociali, in vista del bene comune. Intervenendo direttamente e deresponsabilizzando la società, lo Stato assistenziale provoca la perdita di energie umane e l’aumento esagerato degli apparati pubblici, dominati da logiche burocratiche più che dalla preoccupazione di servire gli utenti, con enorme crescita delle spese. Sembra, infatti, che conosce meglio il bisogno e riesce meglio a soddisfarlo chi è ad esso più vicino e si fa prossimo al bisognoso».
La sussidiarietà è un principio fondamentale della dottrina sociale della Chiesa, insieme al principio di solidarietà – che deve anch’esso seguire logiche sussidiarie – e al principio del bene comune, a cui deve presiedere l’autorità politica. Non si nega, quindi, la possibilità o l’opportunità che i corpi maggiori fino al governo centrale intervengano nella vita delle comunità inferiori, e non solo nella definizione di un quadro giuridico-istituzionale ma anche con la definizione di politiche economiche e sociali, purché queste siano sempre rispettose dell’autonomia della società civile.
Rischi del centralismo.
Andare oltre tale compito, pretendendo di definire tutti i fini e controllare tutti i mezzi, sarebbe iniquo sul piano di principio, destinato al fallimento sul piano pratico e scoraggerebbe la creazione di ricchezza.
Il rischio di tali politiche, ammesso e non concesso che venga fatto sul serio qualcosa di concreto di quanto si indica, è quello di incoraggiare il capitalismo clientelare danneggiando la libera e leale concorrenza, di scoraggiare l’iniziativa privata e il senso di responsabilità, le virtù del risparmio e dell’operosità; col rischio di aumentare la concentrazione di ricchezza presso chi è più vicino ai rubinetti della spesa pubblica. Società ed economie complesse come quelle attuali non possono essere guidate “dal centro”. Nessuno, per quanto competente, onesto e in buona fede, possiede tutte le informazioni necessarie a tale compito: che cosa possiamo sperare dalla classe politica attualmente al governo del Paese? La stessa pandemia del Covid ha evidenziato la necessità di avere risposte decentrate, da parte di chi è più vicino al problema, e dovrebbe semmai rilanciare la sussidiarietà. Il rischio, invece, è che la paura legata alla crisi sanitaria sia sfruttata, come spesso capita nei momenti difficili della vita delle nazioni, per aumentare i controlli e il dirigismo dall’alto. La società rischia di perdere ulteriormente di soggettività e di ridursi sempre più ad una massa amorfa, di singoli sempre più dipendenti dalla macchina pubblica. Al di là dei proclami sarebbe bello vedere qualcosa di concreto nella direzione indicata, a partire dalla riduzione del carico fiscale e dell’interventismo pubblico. L’impressione, sperando di essere smentiti, è invece di proseguire ancora nella stessa strada, condannando il Paese ad un continuo declino.
Venerdì, 2 ottobre 2020