di Silvia Scaranari
«Al riposo come fuga dalla realtà, il Decalogo oppone il riposo come benedizione della realtà»: è una frase di Papa Francesco che riassume tutta l’udienza generale del 5 settembre, dedicata al terzo comandamento “Ricordati di santificare le feste”.
Oggi il significato del riposo festivo è stato completamente stravolto. Ottenere il riposo la domenica e in altre particolari occasioni durante l’anno è sempre stata una battaglia della Chiesa Cattolica che invocava una pausa per i lavoratori, sottoposti in secoli passati a orari massacranti. La pausa per permettere la presenza alla santa Messa non era solo un modo per rispettare in modo formale un comandamento, ma andava al cuore della dignità della persona. In questo senso il Santo Padre cerca di ricollocare il significato del “riposo” nella giusta direzione. Riposarsi significa certamente riprendere energie, ma soprattutto saper cogliere il significato della realtà che ci circonda e di quanto abbia fatto durante la settimana.
Il riposo festivo viene invece spesso inteso come “evasione”: come un allontanarsi dal reale per immergersi in una specie di quarta dimensione, in «[…] un’esistenza anestetizzata dal divertimento che non è riposo, ma alienazione e fuga dalla realtà», alla continua ricerca di una realtà diversa perché ci sfugge il significato di quella che viviamo. «L’uomo non si è mai riposato tanto come oggi, eppure l’uomo non ha mai sperimentato tanto vuoto come oggi», sottolinea il Papa.
Il lavoro è fatica e sofferenza, ma è soprattutto realizzazione della persona umana. Papa san Giovanni Paolo II (1920-2005) lo insegna nella lettera enciclica Laborem exercens: «Il lavoro è una delle caratteristiche che distinguono l’uomo dal resto delle creature, la cui attività, connessa col mantenimento della vita, non si può chiamare lavoro; solo l’uomo ne è capace e solo l’uomo lo compie, riempiendo al tempo stesso con il lavoro la sua esistenza sulla terra. Così il lavoro porta su di sé un particolare segno dell’uomo e dell’umanità, il segno di una persona operante in una comunità di persone; e questo segno determina la sua qualifica interiore e costituisce, in un certo senso, la stessa sua natura» (I – Introduzione).
Con il lavoro l’uomo continua l’opera di collaborazione con Dio nella gestione del creato, contribuisce al bene dell’umanità e conosce la dimensione della realtà che lo circonda. Nell’ultimo secolo, ma in particolare dopo il Sessantotto, la realtà ha perso dignità e positività alla ricerca eterna di una dimensione in cui a essa si sostituisse il sogno. L’uomo attuale, affogato nel nichilismo, non sapendo trovare il significato del proprio essere, dimentico della propria dimensione trascendente e schiacciato nella sfera della pura materialità, cerca continuamente di vivere nel sogno, ma, come dice una celeberrima acquaforte realizzata nel 1797 dal pittore spagnolo Francisco Goya (1746-1828), «il sonno della ragione genera mostri».
Di questo sonno della ragione approfitta la grande industria del divertimento e, dice il Papa, «[…] la pubblicità disegna il mondo ideale come un grande parco giochi dove tutti si divertono».
Al contrario, «le parole del Decalogo cercano e trovano il cuore del problema, gettando una luce diversa su cosa sia il riposo. Il comando ha un elemento peculiare: fornisce una motivazione. Il riposo nel nome del Signore ha un preciso motivo: “Perché in sei giorni il Signore ha fatto il cielo e la terra e il mare e quanto è in essi, ma si è riposato il settimo giorno. Perciò il Signore ha benedetto il giorno del sabato e lo ha consacrato” (Es 20,11)». La Bibbia dice cioè che Dio stesso, fermandosi a contemplare la propria opera, ne riconobbe la bontà. A questo punto «[..] inizia il giorno del riposo, che è la gioia di Dio per quanto ha creato. È il giorno della contemplazione e della benedizione».
Il riposo assume allora un altro significato: diventa «[…] il tempo per guardare la realtà e dire: com’è bella la vita! Al riposo come fuga dalla realtà, il Decalogo oppone il riposo come benedizione della realtà. Per noi cristiani, il centro del giorno del Signore, la domenica, è l’Eucaristia, che significa “rendimento di grazie”. È il giorno per dire a Dio: grazie Signore della vita, della tua misericordia, di tutti i tuoi doni. La domenica non è il giorno per cancellare gli altri giorni ma per ricordarli, benedirli e fare pace con la vita. Quanta gente che ha tanta possibilità di divertirsi, e non vive in pace con la vita! La domenica è la giornata per fare pace con la vita, dicendo: la vita è preziosa; non è facile, a volte è dolorosa, ma è preziosa».
La serenità, la pace del cuore non sono beni che si trovano per caso: vanno coltivati invocando l’aiuto dello Spirito Santo poiché ci sono il dolore e l’infelicità da cui tutti gli uomini vorrebbero fuggire eppure fuggire non serve. È quindi «[…] necessario riconciliarsi con la propria storia, con i fatti che non si accettano, con le parti difficili della propria esistenza. […] La vera pace, infatti, non è cambiare la propria storia ma accoglierla, valorizzarla, così com’è andata».
Contro il desiderio di annullamento e di cancellazione del reale, contro la tentazione di rifugiarsi nell’evasione dove l’umano è troppo umano perché è solo umano, il Papa indica una strada diversa: «Quando diventa bella la vita? Quando si inizia a pensare bene di essa, […] La vita diventa bella quando si apre il cuore alla Provvidenza e si scopre vero quello che dice il Salmo: «Solo in Dio riposa l’anima mia» (62,2)».