di Valter Maccantelli
L’8 maggio il presidente Donald J. Trump ha annunciato ufficialmente il ritiro degli Stati Uniti d’America dall’accordo siglato nel 2015 fra Stati Uniti d’America, Russia, Cina, Francia, Regno Unito, Germania e Unione Europea con l’Iran per limitare le attività di sviluppo di tecnologie nucleari da parte di Teheran in cambio di una rimozione delle sanzioni economiche e commerciali stabilite dalla risoluzione dell’ONU 1747 del 2007, recepita dalla UE nel 2010.
La motivazione ufficiale è stata la presunta ripresa segreta del programma nucleare in violazione degli accordi, come si è affrettato a documentare il premier israeliano Benjamin Netanyahu, con tanto di slide, nella conferenza stampa dello scorso 30 aprile. Qualcuno ha voluto vedervi un favore fatto dagli Stati Uniti d’America a Israele e Arabia Saudita per siglare la rinnovata contiguità dopo gli anni tesi della presidenza di Barack Obama; altri vi leggono un’occasione colta da Trump per sottolineare le differenze con la gestione precedente; altri addirittura un mai sopito rancore della diplomazia statunitense per la vicenda degli ostaggi dell’ambasciata americana del 1979.
Tutti i giudizi sono ammessi, ma bisogna intendersi sui fatti e sul loro inquadramento. Il nucleare e il terrorismo, Obama e Trump stessi, in realtà, con la mossa statunitense di questi giorni c’entrano veramente poco. Gli Stati Uniti (quelli di Obama come quelli di Trump) vogliono in realtà impedire all’Iran di diventare una potenza regionale in Medioriente. Soprattutto vogliono impedire che in tale ruolo il regime degli ayatollah attragga nella propria orbita altri territori sciiti o simil-sciiti (Iraq, Siria e il Libano di Hezbollah che, giusto domenica scorsa, ha vinto le elezioni) formando una fascia che si estenderebbe dal confine pakistano fino alle coste libanesi del Mediterraneo. Questa striscia geopolitica, che alcuni chiamano la “mezzaluna sciita”, sarebbe un alleato naturale dei due acerrimi nemici degli Stati Uniti: la Russia per il versante politico-militare e la Cina per quello economico.
Lo conferma risiede nel fatto che l’accordo è stato siglato nel 2015, quando il regime degli Assad (sostenuto dall’Iran) sembrava sul punto di soccombere sotto i colpi dell’ISIS (sunnita, sostenuto più o meno direttamente dall’Arabia Saudita, vezzeggiato dalla Turchia e molto utile a Israele), spezzando così la “mezzaluna” e disinnescando l’espansionismo post-komeinista, e ripudiato nel 2018 quando il regime di Damasco, con l’appoggio dell’Iran e la presenza attiva della Russia, sembra avviato alla vittoria, riprendendo il proprio posto nella scacchiera filo-iraniana.
Le sanzioni, quindi, non sembrano essere un mezzo per raggiungere lo scopo di fermare il programma nucleare iraniano (di cui parecchi dubitano), ma, al contrario, la minaccia nucleare è il mezzo per raggiungere lo scopo di comminare le sanzioni. In questi anni si è assistito spesso all’uso delle sanzioni – spacciate a difesa dei diritti civili – come armi per combattere vere e proprie guerre asimmetriche contro gli avversari geopolitici di turno sotto la copertura ONU e UE.
In questo caso si tratta di un colpo particolarmente duro perché rischia di far implodere l’intero Paese che attraversa un periodo di gravissima crisi economica che intacca gravemente i propri asset finanziari come dimostrano studi condotti sia sugli Stati Uniti sia sull’Iran stesso.
È possibile che questa implosione corrisponda agl’interessi statunitensi, ma certamente non corrisponde a quelli europei e ancora meno a quelli italiani. In realtà, questa mossa soddisfa solamente due alleati degli Stati Uniti: Israele, che una guerra (non asimmetrica) con l’Iran la combatte già bombardando quotidianamente le sue postazioni in Siria, e l’Arabia Saudita, competitor per la stessa posizione di leader del Medioriente.
L’ultimo, ma non meno importante, punto di riflessione viene da una “singolare” coincidenza: la tensione per la nuova crisi nucleare con l’Iran sta crescendo con tempi e modi del tutto simmetrici rispetto alla descalation della disputa sul nucleare nord-coreano, che aveva tenuto tutti con fiato sospeso nel 2017. È come se il nostro mondo in frantumi dovesse essere sempre “sull’orlo di una crisi di nervi (atomica)” affinché neppure in mezzo alle macerie possa crescere qualcosa: come ha detto san Giovanni Paolo II (1920-2005), «la paura distrugge l’integrità dell’uomo».
11 Maggio 2017