di Stefano Chiappalone
Internet ci rende stupidi? Il celebre titolo del libro dello scrittore statunitense Nicholas G. Carr ‒ Internet ci rende stupidi? Come la rete sta cambiando il nostro cervello (trad. it., Cortina, Milano 2011) ‒ è divenuto anche un interrogativo da cui sono scaturite molteplici e fondate riflessioni sul calo dell’attenzione e della memoria che connotano la società dei “nativi digitali”: non solo chi lo è anagraficamente, poiché culturalmente lo siamo divenuti un po’ tutti, iperconnessi, con l’email a portata di tasca e il clic compulsivo anche quando non è necessario, con l’illusione di essere perennemente aggiornati o talvolta di scacciare la noia… con il risultato spesso di aumentarla.
Un interrogativo analogo però risuona tra la musica a alto volume di un centro commerciale e il frastuono del traffico al di fuori: il rumore ci rende stupidi? Sta di fatto che il rumore artificiale è la nota dominante, la colonna sonora delle nostre vite, mentre siamo alla guida o mentre facciamo la spesa, quando siamo al ristorante o persino aprendo la finestra: anche in assenza di parole o di notifiche c’è sempre qualcuno che si premura di rumoreggiare o almeno un’auto che passa sulla strada. Questa continua sollecitazione uditiva non pare priva di conseguenze sulla nostra (in)capacità di restare concentrati, di fermarsi a pensare o semplicemente a cogliere le sfumature della realtà. Il silenzio sta diventando una faticosa conquista e non restano che poche “riserve”, forse in montagna o sulle rive di un lago, rarissimi luoghi dove affannosamente riusciamo a far tacere i rumori artificiali per tornare a percepire quelli naturali, passando così – finalmente… – dal ritmo ingolfato della frenesia a quello disteso della contemplazione.
Tuttavia, a chi darne la colpa se non a noi stessi, in preda a un horror vacui che fa quasi temere la pienezza assordante del silenzio? È lo stesso timore che persino in casa spinge molta gente a tenere il televisore acceso per ore, anche quando non lo sta guardando (“fa compagnia…”). Così, da ben prima della rivoluzione di Internet e dello smartphone per cui non si può non dirsi connessi, si è andata delineando la rivoluzione del rumore: televisori, motori, clacson e altoparlanti in un continuo vortice che sottopone la mente a una pressione impercettibile e incessante. Una “tortura cinese” volontaria, versione amplificata su scala sociale della goccia di acqua che cadeva ripetutamente sulla fronte del condannato fino a farlo impazzire. Croce e delizia di chi, pur lamentandosene, non riesce a farne a meno. Dà fastidio la cassa ad alto volume al ristorante e tuttavia, se si spegne, ci si sente spaesati o ci si chiede se stia accadendo qualcosa di grave. Generalmente, la musica stessa che ci autoinfliggiamo è essenzialmente rumore che martella noi stessi e il prossimo fino al paradosso del ragazzino in autobus o in metro con gli auricolari – strumenti che tecnicamente servirebbero a non disturbare – a volume talmente alto da creare un effetto filodiffusione tutt’intorno. Peggio ancora, certo rumore musicale livella e annichilisce le identità: in un locale di Roma si mangia allo stesso ritmo di un locale di Londra o di Mosca. Ricordo una cena nella storica osteria dell’eroe contro-rivoluzionario cattolico tirolese Andreas Hofer (1767-1810), dove mi aspettavo di gustare le specialità del luogo insieme all’atmosfera dell’Insorgenza antifrancese che l’antico albergatore guidò in difesa della religione e delle tradizioni degli avi, fino a rimetterci la stessa vita. Ebbene, in questo sacrario mi accolse l’immancabile musica commerciale priva di qualsiasi legame con l’oste di Sand, ma anche in generale con quel paradiso in Terra che è il Tirolo. A onor del vero, e dei gestori, va detto che la cena era ottima e che, su richiesta, ci fecero accomodare nella Stube, praticamente il sancta sanctorum del luogo.
Talvolta risulta difficile ritagliarsi un po’ di silenzio persino in chiesa, dove si viene facilmente distratti dal chiacchiericcio che tace solo all’inizio delle funzioni, forse più per educazione verso il celebrante che per adorazione verso il celebrato. L’illusione tuttavia dura poco, poiché la vera participatio actuosa, cioè quella del cuore, finisce per essere travolta dalla tendenza a dover fare, dire e ripetere persino ciò che spetterebbe al sacerdote. Mentre stai per unirti intimamente al sacrificio dell’altare non è inusuale sentire qualche “pia donna” che sussurra: «Questo è il mio corpo», convinta forse di agire anch’ella in persona Christi o, più semplicemente, perché tacere le risulta troppo difficoltoso.
Restando in ambito liturgico forse è proprio la diffusa abitudine al rumore a generare quell’abbandono dei momenti di silenzio, pur tanto raccomandati dai Pontefici, nonché a spiegare una certa diffidenza da parte di molti verso la forma straordinaria della liturgia, la cosiddetta “Messa in latino” che forse sarebbe più corretto definire “Messa in silenzio”. Molto più che dall’uso dell’antica lingua, infatti, questa forma celebrativa è caratterizzata dalla moltitudine di preghiere che il celebrante pronuncia submissa voce, a voce sommessa, man mano che si avvicina in punta di piedi nel grande mistero del Calvario e della Gerusalemme celeste. Il grande silenzio domina il canone quando, nel momento culminante della Messa, persino gli angeli tacciono al cospetto dell’Agnello immolato. È un’immersione nell’eternità, dove ormai le parole terrene lasciano spazio alla lenta soavità dei gesti d’amore. Anche tante persone devote si trovano spaesate se non hanno nulla da recitare o da cantare: e adesso che si fa? Si ascolta, lasciandosi immergere in quel silenzio che man mano farà sempre meno paura, rivelandoci l’eterna Parola che per sempre risuona dal seno della Trinità.