Il presidente di Steadfast spiega l’etica dell’agire di Attanasio e Iacovacci nel Nord Kivu, ma formula anche alcune domande imprescindibili sulle misure di sicurezza attivate attorno al convoglio dell’ambasciatore italiano
di Emanuele Di Leo
Quanto successo giorni fa nella Repubblica Democratica del Congo (RDC) ha turbato l’intero Paese. Cosa vuol dire operare in un territorio come quello congolese? Il “Gigante africano” già in passato si è distinto negativamente per i suoi focolai di guerra. Basti pensare al non lontano periodo di tempo tra il 1994 e il 2003, quando il territorio della Repubblica Democratica del Congo divenne il teatro di un conflitto che, per capacità, presenza (nove Paesi coinvolti) e ferocia ha determinato circa 5 milioni di vittime.
Nonostante il conflitto sia finito, gli eccidi, gli stupri e la lotta armata nel Kivu non sono mai cessati. Milizie e gruppi ribelli continuano ad infierire in quella regione dell’est del Paese, nonostante la presenza dell’ONU con una delle missioni di peacekeeping più considerevole, la MINUSCO.
Un territorio molto difficile, dove povertà, corruzione, malattie, terrorismo e più di cinque milioni di sfollati fanno da contorno ai tesori più ricercati del globo: cobalto, diamanti, oro, nichel e il richiestissimo coltan, materiale indispensabile per la produzione degli smartphone. A est del territorio della RDC, nell’area del parco del Virunga, scenario della tragedia che ha colpito il nostro Paese con l’uccisione dell’ambasciatore Luca Attanasio e del carabiniere Vittorio Iacovacci, ultimamente sono stati scoperti nuovi giacimenti petroliferi, classificando quel territorio come una delle principali zone del pianeta con il maggior accumulo di risorse minerarie. Tutta questa ricchezza è tra le cause principali dell’instabilità del Paese.
Essere diplomatico in Paesi come la RDC è un ruolo molto delicato. Intrattenere relazioni per conto dell’Italia con gli altri Stati e le varie Organizzazioni Internazionali non è una cosa semplice. Voglio focalizzarmi proprio su quest’ultimo punto di vista. Il nostro ambasciatore Luca Attanasio si distingueva dai tanti diplomatici proprio per il suo lato umanitario. Ho avuto la fortuna di conoscerlo personalmente nel 2015, quando, in quel periodo, era primo Consigliere dell’Ambasciata italiana ad Abuja, in Nigeria. Un giovane diplomatico, forse il più giovane tra quelli italiani, che aveva una spiccata capacità empatica, la quale gli permetteva di intessere ottime e durature relazioni. Non sempre è così. Il rapporto con la diplomazia, specialmente per le organizzazioni non governative, non è sempre empatico. Era chiara ed evidente la sua convinzione che essere ambasciatore, specialmente nel Sud del Mondo, in Paesi complicati come il Congo, ha tra i suoi compiti principali quello di contribuire attivamente alla costruzione della pace.
Un uomo, Attanasio, che aveva l’Africa dentro. Questo non è un concetto semplice da spiegare. L’Africa non è un tramonto mozzafiato, un documentario o una bella fotografia: per poterla vivere e comprendere, bisogna “farne parte”. Luca era tutt’uno con quel tessuto sociale, era intriso di quella cultura, ne conosceva ogni singolo aspetto e ne aveva rispetto. Questo, in particolar modo, è uno dei requisiti fondamentali per chi è operatore di pace in tali scenari. Luca e sua moglie, Zakia Seddiki, fondatrice della ONG “Mama Sofia”a Kinshasa, hanno aiutato migliaia di madri e bambine, che, indigenti, necessitavano di ogni forma di sostegno.«In Congo tante di quelle cose che diamo per scontate, innanzitutto la pace, l’istruzione e la salute, sono cose che non sono date per scontate, anzi sono un privilegio per pochissimi. Che cosa resta, cosa diamo per scontato nella nostra vita? Forse su quelle cose dobbiamo costruire il nostro futuro»: questo era lo spirito di cambiamento che spingeva Luca ad agire, anche e soprattutto sotto il profilo umanitario. Infatti il viaggio verso il Nord Kivu era stato organizzato proprio per verificare un programma di distribuzione di cibo nelle scuole delle agenzie ONU. Come detto sopra, il Kivu è un territorio molto impervio e pericoloso, teatro di violenti scontri tra decine di milizie, che si contendono il controllo del territorio e delle sue risorse naturali.
Il convoglio era composto da due vetture del Pam-Wfp, stava viaggiando verso nord, sulla strada tra Goma e Rutshuru. I mezzi sono stati bloccati a 15 km da Goma, nei pressi del Parco nazionale di Virunga, da un commando composto da 6 persone.
L’agguato che ha colpito a morte i nostri Luca Attanasio e Vittorio Iacovacci, molto probabilmente, è stato realizzato con l’intenzione di attuare un sequestro di persona, un’azione molto frequente, in questo periodo, in tutta l’Africa Subsahariana. Le dinamiche e le responsabilità di quanto accaduto non sono chiare e sarà importante, nelle indagini in corso, capire chi ha qualificato il percorso come sicuro, chi ha gestito l’organizzazione dello spostamento e chi ha ritenuto di poter effettuare questo tipo di attività, che a mio avviso non poteva essere ritenuta senza rischi. Purtroppo, non dare la giusta importanza alla sicurezza, anche in eventi meno ufficiali, comporta errori fatali. L’Italia ha perso due grandi costruttori di pace e ora ha due nuovi modelli da cui prendere esempio.
Sabato, 27 febbraio 2021