Pierre Faillant de Villemarest, Cristianità n. 138 (1986)
In una rapida rievocazione dei tragici avvenimenti del 1956 la denuncia del comportamento proditorio delle dirigenze dei paesi occidentali e l’incitamento a raccogliere — nella sopportazione della storia — un’eredità di eroismo e di speranza.
Una lezione da ricordare
Il sangue di Budapest
I servizi comparsi periodicamente, in questi ultimi anni, sui più diffusi settimanali occidentali, mostrano un volto dell’Ungheria che non è quello reale, ma una maschera. Film e fotografie fanno vedere vie ordinate e «ridenti», muri coperti di manifesti pubblicitari dai colori vivaci, per reclamizzare prodotti che si troverebbero tanto a Budapest o nel resto del paese che in qualunque città dell’Europa Occidentale. Si vedono giardini fioriti, vie di un’antica città ancora piena dei rumori della storia, e poi una piscina in cui se la spassano dei giovani: proprio come se nel paese non si trovasse un’armata sovietica d’occupazione e soprattutto, nell’ombra, una polizia politica, che fa quotidianamente intendere che la popolazione non ha niente da dire e neppure da pensare perché, in definitiva, mangia pressappoco a sazietà.
Anche i greggi, in ogni paese del mondo industrializzato, mangiano a sazietà e non hanno bisogno di pensare. Forse anche il mondo ancora libero si abitua a lavorare per mangiare e a pensare che tutto va per il meglio nel meno cattivo dei mondi, poiché altri si incaricano di pensare politicamente per suo conto. Perché allora si dovrebbe preoccupare per un mondo vicino, nel quale il materialismo è la stessa regola d’esistenza?
Di fatto si sbaglierebbe, in Occidente, se si credesse che trent’anni dopo l’insurrezione di Budapest un popolo totalmente rassegnatosi sia abituato a una sorta di comunismo alimentare. In altri termini, che l’anima di questa nazione sia morta e che nulla potrà accadere in Ungheria, né in altri paesi dell’Est, neanche nella vicina Polonia.
Una paziente attesa del riflusso totalitario
Anche tra il 1940 e il 1944, in tutti i paesi d’Europa devastati dalla guerra e poi occupati da un esercito straniero, a qualsiasi schieramento appartenessero, vi erano manifesti pubblicitari sui muri, casinò e locali notturni come oggi a Budapest, e piscine in cui della gioventù se la spassava. Vi era anche un mercato nero molto fiorente per quanti non potevano, come una certa nomenklatura, comperare direttamente prodotti razionati. Vi erano anche la miseria, la tristezza, l’angoscia, che nessuno poteva filmare.
E vi erano pure, nelle strade, uomini e donne che tentavano di camminare a testa alta, con l’aspetto più disteso possibile, come per sfidare il destino. E poi sono venuti gli sconvolgimenti.
Tutti i totalitarismi si assomigliano, nei loro metodi e anche nei loro fallimenti, fin tanto che non sono riusciti a spezzare l’anima e la fede di un popolo. Se si giudica il silenzio ungherese come rassegnazione definitiva, non si è capito il modo di sopravvivere di questi uomini e di queste donne, le cui famiglie sono state tutte segnate dalla frusta comunista. Dopo il trauma inesprimibile costituito dall’abbandono da parte dell’Occidente, trent’anni fa, l’istinto di sopravvivenza ha fatto loro comprendere che bisognava fingere di piegarsi almeno per mangiare, accumulando dentro di sé sia rabbia repressa che speranza.
Non è da ieri che questo popolo, venuto da lontano per insediarsi nel cuore dell’Europa, ha attraversato la prova del sangue. Come il vicino polacco, a suo modo, sa che la marea può facilmente invadere le spiagge e annegare quanti l’hanno sfidata: ma viene sempre il momento, nella storia, in cui il riflusso la obbliga a retrocedere. Una paziente attesa è mascherata dai sorrisi ironici del popolo ungherese, mentre una minoranza agli ordini di un occupante più discreto di prima del 1956, ma sempre presente, approfitta dei privilegi, pur sapendo che le scadenze si avvicinano.
Non dimenticare l’ottobre di Budapest
Resta il fatto che sarebbe immorale e indegno di un uomo, e soprattutto di un cristiano, non continuare a ricordare alle generazioni del mondo occidentale nate dopo Budapest, che cosa è stato questo sanguinoso episodio del dopoguerra, dal momento che prefigurava tutti gli abbandoni perpetrati dai dirigenti del mondo libero nei trent’anni seguenti.
Vi era stata l’insurrezione operaia di Berlino e poi di una decina di città industriali della Germania Orientale nell’estate del 1953; ma l’Occidente non si era mosso. Anzi, il borgomastro socialista di Berlino, Willy Brandt, si era precipitato davanti agli operai di una capitale non ancora divisa dal «muro» per supplicarli di non proseguire le loro manifestazioni.
Vi era stata l’insurrezione operaia di Poznan nell’estate del 1956, anch’essa stroncata dai carri armati sovietici. Ma, in autunno, era la volta di Budapest. Anche qui, non giovanissimi «borghesi», ma una massa di operai, subito affiancati da uomini di tutte le categorie sociali, scesero nelle strade per gridare la propria sete di vivere e di pensare.
La rivolta ungherese cominciava quel 23 ottobre 1956. Undici giorni dopo, all’alba del 4 novembre, duecentomila soldati sovietici si scagliano sull’Ungheria in aiuto di ottantacinquemila dei loro e, soprattutto, di un partito comunista abbandonato dalla metà dei suoi quadri.
Dieci giorni ancora e il 14 novembre l’ordine socialista regnava a Budapest; ma non si ricorda mai, nelle storie pubblicate in Occidente, che uomini e donne, abbandonati, continuano a combattere fino all’ultimo di loro, dandosi alla macchia nel resto del paese fino all’estate del 1957.
Ventimila morti in dieci giorni a Budapest; diecimila nel resto del paese; settantacinquemila ungheresi deportati nell’URSS; altri diecimila in prigione oppure in campi di concentramento in Ungheria; duecentomila rifugiati all’estero…
Nel 1959 la «distensione» Est-Ovest tentava di cancellare tutto questo. Il generale Dwight D. Eisenhower — che nel 1952, durante la sua ultima campagna elettorale, aveva promesso «la liberazione dei paesi satelliti» — riceveva amichevolmente Nikita S. Kruscev a Camp David, mentre Fidel Castro stava per essere festeggiato all’ONU e a New York come un liberatore trionfante.
L’opinione pubblica fu allora orientata dai mass-media verso gli sconvolgimenti dell’America Latina, verso la querelle Pechino-Taiwan oppure verso la pretesa ricomparsa del nazionalsocialismo nell’Europa Occidentale, «montaggio» della disinformazione sovietica ormai riconosciuto. Così si dimenticava Budapest dove un popolo stroncato e distrutto aveva appena capito che poteva anche essere al confine con il mondo libero, ma che aveva soltanto il diritto di rimanere nella propria gabbia.
Episodi di rivolta all’interno dell’esercito sovietico
Si avanza l’ipotesi, nei ministeri degli Esteri degli Stati occidentali, che ogni reazione da parte loro avrebbe provocato l’«olocausto». Mosca possedeva l’arma atomica; ma si doveva confessare, venti o trent’anni dopo, che nel 1956, in realtà, l’URSS non aveva mezzi operativi sufficienti per utilizzare quest’arma se non a condizione di ricevere una risposta americana dieci volte superiore sui propri centri vitali, mentre da parte sua non poteva colpire gli Stati Uniti. E poi durante l’insurrezione ungherese era successo qualcosa, che le generazioni che non hanno vissuto questo dramma della vigliaccheria occidentale devono conoscere.
Qualche giorno dopo l’invasione dell’Ungheria, anche i soldati sovietici più disinformati avevano capito che non stavano affatto intervenendo a Berlino, come era stato loro detto prima del trasferimento notturno, né in qualche paese «invaso dagli americani» oppure «sovvertito dai fascisti», ma in un paese governato da comunisti unanimemente odiati dal popolo. Allora in tutte le divisioni sovietiche vi furono rivolte e casi di insubordinazione lino alla diserzione. Così accadde anche a Budapest: degli ungheresi avevano avvertito alcuni ufficiali carristi che gli uomini della polizia politica comunista, l’AVO, asserragliati nell’edificio del ministero dell’Economia, sparavano dalle finestre sulla popolazione inerme. Dodici carri armati sovietici si dispongono in batteria e s arano sull’edificio per sloggiare e uccidere gli agenti dell’AVO.
Il giorno seguente, un centinaio di soldati e di sottufficiali sovietici passava dalla parte degli insorti, come doveva confermare più tardi il cardinale Mindszenty al quotidiano svizzero Neue Zürcher Zeitung.
Nel resto del paese, a Szombathely, la diciassettesima divisione sovietica rifiuta di sparare sugli insorti e si accorda con loro.
A Györ, qualche giorno prima, il colonnello sovietico Vladimir Novikov aveva preso la parola alla radio regionale degli insorti per rivolgersi ai sovietici, a nome dello Stato Maggiore della sua divisione, perché rifiutassero, ovunque fossero, «per la reputazione della Russia» — e non dell’Unione Sovietica —, di sparare su un popolo in rivolta contro la dittatura.
Bisogna dire che il colonnello Novikov aveva scoperto a Györ, in via Béla Bartók 44, quanto accadeva nella centrale regionale dell’AVO. Non vi erano soltanto centocinquanta celle senza riscaldamento, senza areazione, senza finestre, e camere di tortura, dove da cinque o sei anni erano morti e continuavano a morire prigionieri politici, ma vi si trovava anche un forno crematorio lungo tre metri e largo sessanta centimetri. Alcuni resti, successivamente prelevati e analizzati da specialisti, dovevano rivelare che l’AVO praticava le stesse «operazioni», che erano state rimproverate ai nazionalsocialisti nel 1945. Eppure, sui grandi giornali del mondo libero non si è parlato del forno crematorio di Györ. Il fatto avrebbe irritato Mosca e offuscato la reputazione di János Kádár, che Yuri Andropov, allora ambasciatore a Budapest, aveva appena imposto come nuovo numero uno. Un comunista ne rimpiazzava un altro, come se avesse potuto essere migliore del precedente.
Rompere il silenzio che soffoca il recente passato dell’Ungheria è un modo per dire agli ungheresi che, nonostante la mancanza di autentici dirigenti, i popoli dell’Occidente non dimenticano il loro martirio e non rispondono di quelli che per due volte, dopo il 1945 e dopo l’ottobre del 1956, li hanno consegnati ai carnefici.
Presto o tardi il diritto, la fede e la giustizia si prendono la loro rivincita. Vi è sempre un grande silenzio prima del riflusso della marea. L’impero sovietico e i suoi satelliti sono già circondati da questo grande silenzio.
Pierre Faillant de Villemarest