di Stefano Chiappalone
Già diverse settimane prima del Natale intorno al presepe si snodano ghirlande di vischio, agrifoglio, rametti di abete, stelle di Natale, musica, candele e luminarie che dalle case si riversano sull’intera città. Qualcuno lo troverà un cedimento al profano, ma potrebbe essere anche il contrario: più o meno consapevolmente o superficialmente, per fini più spirituali o più commerciali, a seconda dei casi, resta il fatto che tutti si sentono in dovere di tirar fuori il meglio per prepararsi al Natale. E se non tutti giungono alla spiritualità, non disprezziamone lo sforzo estetico. Più che di “dovere”, sarebbe meglio parlare di istinto: un istinto della bellezza che si fa particolarmente vivo in occasione delle feste, di ogni festa.
Quando si hanno ospiti importanti si fa trovare loro una casa pulita e una tavola ornata; in occasione di un matrimonio, chiesa e invitati sono tirati a lucido; in alcune università si usa addirittura ornare il neolaureato con la corona d’alloro, a (pallida) imitazione degli antichi romani. In poche parole, per ogni evento importante, non solo le persone, ma persino gli ambienti si “vestono” in modo appropriato, esprimendo in modi differenti il contesto (familiare, ufficiale, civico, liturgico) e l’evento celebrato.
L’ornamento non è solo preparazione al rito, ma è un rito esso stesso, vale a dire – con le parole del Piccolo Principe – «ciò che fa un giorno diverso da tutti gli altri giorni». La vera festa, come insegna il filosofo tedesco Josef Pieper (1904-1997), è gettare lo sguardo sulle fondamenta del mondo, per scoprirne la bontà originaria (e irrevocabile), per non lasciare che la routine possa oscurare la realtà.
Questo istinto festivo che spinge ad addobbare e a decorare – anche quando non si è in vena di far festa – aiuta ad aprirsi la strada tra le piante parassite del male per arrivare a un tronco solido e a rami che, benché nascosti, sono ancora generosi di buoni frutti.