Emanuele Aliprandi, Cristianità n. 425 (2024)
Emanuele Aliprandi si occupa da oltre vent’anni di Armenia e Nagorno Karabakh ed è autore di diverse pubblicazioni al riguardo. Il suo ultimo libro è La guerra per il Nagorno Karabakh, uscito per la casa editrice Archivio Storia, nel quale si raccontano la storia e le ultime vicende di questa martoriata terra fino all’esodo finale nel mese di settembre del 2023.
1. Sotto la dominazione sovietica la regione del Nagorno Karabakh — popolata quasi esclusivamente da armeni — era stata assegnata alla Repubblica Socialista Sovietica Azera ed era stata creata l’Oblast’ Autonoma del Nagorno Karabakh (NKAO). Con la dissoluzione dell’URSS, alla fine degli anni 1980, crebbero le istanze di riunificazione con la madrepatria armena. Nell’agosto del 1991 la Repubblica Azera formalizzò l’uscita dall’Unione Sovietica, lasciando alla regione autonoma il diritto di scegliere una strada diversa in forza della legislazione sovietica a quel tempo vigente, cioè la legge del 7 aprile 1990, recante il titolo Norme riguardanti la secessione di una repubblica dall’Urss. Dopo un referendum e le elezioni, il 6 gennaio 1992, festa del Natale armeno, venne proclamata la repubblica del Nagorno Karabakh-Artsakh; poche settimane dopo le forze armate azere la attaccarono, dando vita a quella che è chiamata la prima guerra del Karabakh, conclusasi con la schiacciante vittoria dei partigiani armeni e con un accordo di tregua, firmato nel maggio del 1994. Nell’aprile del 2016 si ebbe una nuova offensiva azera — la «Guerra dei cinque giorni» —, conclusasi con un sostanziale nulla di fatto. Il 27 settembre 2020, le forze armate azere hanno nuovamente attaccato, riuscendo a conquistare vaste porzioni di territorio armeno. Il conflitto — la «Guerra dei 44 giorni» — fu interrotto in seguito a un accordo tripartito fra Armenia, Azerbaigian e Russia, che ridusse l’area di amministrazione armena a meno di 3.000 km2 rispetto agli 11.000 precedenti. Il 19 settembre 2023, con un’operazione-lampo durata ventiquattr’ore, le forze armate dell’Azerbaigian hanno costretto alla resa gli armeni e occupato tutto il territorio.
2. L’ultima notizia in ordine di tempo diffusa dai media azeri e ripresa dai social riguarda la cittadina di Hadrut, nel sud di quella che fino al settembre scorso era la piccola repubblica armena de facto dell’Artsakh, più comunemente conosciuta come Nagorno Karabakh: le immagini documentano i lavori di costruzione di una moschea in una località dove peraltro da sempre, per la composizione etnica della popolazione locale, vi erano solo chiese cristiane. La scelta del sito non appare invero casuale.
In seguito all’attacco dell’Azerbaigian, nel 2020, a quello che considerava proprio territorio, anche Hadrut, infatti, era finita sotto controllo azero; e proprio in quella località, nel giugno del 2021, l’autocrate presidente dell’Azerbaigian, Ilham Aliyev (1), aveva pronunciato un discorso invitando a rimuovere qualsiasi simbolo architettonico che potesse fare riferimento alla presenza armena nella regione.
Le prime a farne le spese furono dunque le chiese, insieme ai monasteri di epoca medioevale e alle khatchkar (croci di pietra) armene (2), peraltro già duramente colpiti nel corso del conflitto: per esempio, a Shushi, la cattedrale del Santissimo Salvatore è stata per due volte intenzionalmente bombardata dagli azeri e analoga sorte ha subito la cosiddetta «Chiesa verde» nella stessa città.
Con la definitiva conquista di tutto l’Artsakh, in seguito alla nuova fulminea azione bellica lanciata in settembre, la preoccupazione per le sorti del patrimonio culturale civile e religioso armeno si è estesa a tutto il territorio della regione, dalla quale l’intera popolazione rimasta, oltre 100.000 abitanti, è fuggita di fronte all’avanzata azera.
Lo scopo di questa operazione di maquillage, politica prima ancora che culturale, è fondamentalmente duplice: da un lato fornire alla regione un’identità «azera» che giustificasse la (ri)conquista; dall’altro lato, proporre una narrazione storica che etichettasse gli armeni come usurpatori di terre altrui. L’antica popolazione albana del Caucaso ha rappresentato per Baku lo strumento per sviluppare una propaganda che, a dire il vero, ha trovato ben poco seguito a livello accademico internazionale (3). La tesi dell’origine albana dei monumenti medioevali disseminati in Karabakh è stata proposta negli anni 1960, ma è rimasta confinata in Azerbaigian e sostanzialmente dimenticata per alcuni decenni, salvo essere poi rispolverata al momento opportuno.
Così, al termine della vittoriosa campagna militare, alla rivendicazione dei territori si è aggiunta quella storica. E gli albani del Caucaso — che peraltro si erano stabiliti a oriente del fiume Kura e non avevano influito sulla vita religiosa, artistica e culturale del Karabakh superiore, se non marginalmente — si sono ritrovati a giustificare una narrazione politica, una riscrittura, che di storico e culturale aveva ben poco.
Nel gennaio del 2022, l’Azerbaigian aveva varato una Commissione speciale con il compito di studiare «l’antica eredità albana nei territori liberati dell’Azerbaigian» (4). L’annuncio era arrivato direttamente dal ministro della Cultura di Baku, Anar Karimov, e fu un’evidente risposta alla Corte Internazionale di Giustizia, che il 7 dicembre aveva chiesto all’Azerbaigian di adottare le misure necessarie per prevenire tutti gli atti di vandalismo commessi contro il patrimonio culturale armeno e di punire i responsabili di molti atti criminali commessi e candidamente postati sui social (5).
Come detto, a farne le spese sono state in primo luogo le chiese presenti nei territori passati sotto il controllo azero. Quelle più recenti — per esempio la chiesa di Zoravor Surp Astvatsatsin, «Santissima Madre di Dio», nel distretto di Jrakan — sono state abbattute con il pretesto che erano state erette nel periodo di occupazione armena e quindi non potevano far parte del contesto territoriale; in alcuni casi, l’alternativa all’abbattimento è stata la conversione in moschea, come accaduto per la chiesa Surb Hambardzum, «Santa Ascensione», a Berdzor (Lachin). Per qualcuna meno recente è stata proposta, invece, la trasformazione in chiesa ortodossa russa. Ma per tutte quelle, monasteri compresi, edificate dal secolo IV in poi la linea guida azerbaigiana prevede la riscrittura storica e religiosa dei manufatti, che vengono inquadrati a forza nel patrimonio culturale albano.
Eredi di quell’antica chiesa cristiana erano — e forse sono ancora — gli udi, minuscola comunità di pochissime migliaia di membri, che vive in un paio di villaggi nel nord-est dell’Azerbaigian. Il loro «capo spirituale», Robert Mobili, d’intesa con il governo e con il comando militare azerbaigiano, cominciò sin dalla fine della guerra del 2020 un pellegrinaggio di «riconsacrazione» dei siti religiosi armeni: da Tzitzernavank a Dadivank (ribattezzato Khudavang), un tour di «fedeli» — per lo più funzionari governativi e militari — aventi come unico scopo quello di sconfessare l’origine armena dei luoghi e riscriverne la storia. Questa operazione viene fondamentalmente condotta attraverso due passaggi: il cambio di nome e l’eliminazione dagli edifici di iscrizioni e di elementi decorativi armeni.
Durante la guerra del 2020 e dopo la firma della tregua, sui social turchi e azeri vennero postati video di atti di vandalismo contro beni architettonici nemici: statue, monumenti, memoriali, cimiteri, tutti presi di mira con un sottofondo di risate e di musichette nazionaliste. Al punto che già nel marzo del 2021 il presidente del parlamento dell’Artsakh, Artur Tovmasyan, aveva indirizzato un appello al Segretario generale dell’ONU Antonio Guterres, al Direttore generale dell’UNESCO Audrey Azoulay, al Rappresentante personale del Presidente in esercizio dell’OSCE, Andrzej Kasprzyk, e al Consiglio Mondiale delle Chiese, sottolineando la crescente minaccia al patrimonio culturale e religioso e chiedendo un intervento per fermare la distruzione dello stesso. L’UNESCO aveva proposto alla fine del conflitto di inviare una delegazione per censire i beni armeni rimasti oltre confine, ma non ha ricevuto alcun riscontro favorevole da Baku. È difficile quantificare con precisione la consistenza di tale patrimonio. Nell’aprile del 2021 l’allora ministro dell’Istruzione, della Scienza, della Cultura e dello Sport dell’Artsakh, Lusine Karakhanyan, in una conferenza stampa a Yerevan aveva riferito che erano circa 2000 i beni architettonici in pericolo nei territori a quel tempo occupati dagli azeri: nello specifico 13 monasteri, 122 chiese, 52 fortezze, 523 croci di pietra, 4 cappelle, 127 biblioteche scolastiche, 10 musei statali e 2 privati, aggiungendo che anche il Museo Archeologico di Tigranakert e più di 800 campioni del museo del Tappeto erano finiti sotto il controllo azero (6).
L’organizzazione Caucasus Heritage Watch dalla fine del conflitto ha attivato un monitoraggio satellitare con lo specifico obiettivo di verificare lo stato di conservazione del patrimonio armeno. Nel corso di tale campagna di osservazione sono emerse la distruzione di numerosi cimiteri e l’alterazione di non pochi siti, come per esempio lo spazio espositivo allestito dietro il Museo delle Belle Arti di Shushi, dove ventuno sculture realizzate anche da artisti internazionali, compresi alcuni italiani, sono state rimosse e ad oggi il loro destino è incerto.
Sempre nella medesima città è invece fin troppo evidente il destino delle già ricordate due chiese cristiane: la cattedrale del Santissimo Salvatore (Ghazancetsots) è oggetto da mesi di un intervento di restauro, che ne sta alterando il profilo armeno. In una nota del maggio del 2021 il ministero degli Esteri dell’Azerbaigian sottolineava che «moschee, monumenti storici, mausolei, case-museo e la Chiesa di Gazanchi [il nome azerbaigiano di Ghazanchetsots] sono stati restaurati nell’ambito di lavori di ricostruzione su larga scala a Șușa [Shushi]», aggiungendo che «questa ricostruzione viene eseguita secondo lo stile architettonico originale al fine di ripristinare l’immagine storica di Șușa» (7).
La cupola della chiesa, nella classica forma appuntita tipica dell’architettura armena, era già stata modificata nel 1920 dai tatari — gli azerbaigiani di allora — dopo il pogrom che colpì i quartieri armeni della città; ricostruita dopo la vittoria armena nella prima guerra degli anni 1990 è ora oggetto di una nuova «spuntatura» politica. Destino analogo per la «Chiesa verde» (Kanach zham), ora privata dei suoi due campanili.
La sorte dei beni culturali armeni nei territori sotto controllo azero è segnata: qualcosa, trasportabile per dimensioni e peso, è stato salvato nei distretti passati all’Azerbaigian in seguito all’accordo del 9 novembre 2023, ma la maggior parte delle risorse artistiche e religiose è rimasta in loco.
I rischi per la sorte di questo patrimonio non sono sfuggiti al Parlamento europeo, che ha prima votato una risoluzione sulla «Distruzione del patrimonio culturale nel Nagorno-Karabakh» (8) e ha poi inserito il tema in una risoluzione sull’attuazione dell’Agenda europea della cultura (9). Nonostante gli appelli internazionali e le votazioni, tuttavia, nessuna commissione terza ha potuto verificare il reale stato dei monumenti armeni nei territori ora sotto controllo azero, né vi è stato un cambiamento in materia nella propria politica da parte dell’Azerbaigian.
Come detto precedentemente, l’ultimo attacco azero del settembre del 2023 ha portato alla totale conquista del territorio e all’esodo in massa della popolazione armena. Nella regione sono rimasti una ventina di armeni anziani e/o disabili, che non hanno voluto o potuto scappare.
L’ex capitale della repubblica, Stepanakert, è praticamente una città fantasma, popolata solo da soldati azeri e addetti alle costruzioni. È sparita subito la grande croce luminosa che nella notte dominava dall’alto di un colle la città, e dalla cattedrale e dalla chiesa di san Giacomo è stato tolto il simbolo religioso cristiano. Stessa sorte documentata anche per la chiesa di Vank (secolo VII) sopra il sito archeologico di Tigranakert e per quelle di San Sargis e di San Grigor nel villaggio di Tzar, nella regione di Karvachar/Kelbajar.
Incerto è il destino del monastero di Amaras, che pure tanta importanza ha avuto nella storia armena: lì il monaco Mesrob Mashtost (362-440) coniò nel IV secolo l’alfabeto che, unitamente al cristianesimo, fu il collante per la sopravvivenza del popolo armeno.
Se la comunità internazionale non interverrà sollecitamente, imponendo missioni di controllo, il rischio che l’intero patrimonio architettonico armeno, civile e religioso, venga spazzato via diventerà certezza. Siamo già in ritardo, le poche testimonianze che arrivano dalla regione non lasciano purtroppo dubbi al riguardo.
Note:
1) Succeduto nel 2003 al padre Heydar (1923-2003), Ilham Aliyev nel febbraio del 2023 è stato rieletto per la quinta volta alla carica di presidente dell’Azerbaigian. In precedenza, aveva emendato la Costituzione, eliminando il limite dei mandati ed estendendo la durata degli stessi a sette anni. La moglie è vicepresidente. L’Azerbaigian figura agli ultimissimi posti in tutti i report mondiali sul rispetto dei diritti civili e politici e sulla libertà di informazione.
2) Nel 2005 nella repubblica autonoma del Nakhichevan — appartenente all’Azerbaigian — vennero rase al suolo migliaia di khatchkar medioevali a Julfa, peraltro senza che l’UNESCO potesse o volesse intervenire nei confronti dell’Azerbaigian che, detto per inciso e senza malizia, è un importante contributore dell’organizzazione. Un tempo la regione era abitata al 60 per cento da armeni: secondo Caucasus Heritage Watch gli azeri hanno distrutto anche 108 fra chiese, monasteri e cimiteri armeni.
3) Albània è il nome che fino al secolo VIId.C. fu dato dagli storici antichi alla regione sulla riva occidentale del Mar Caspio, a est dell’Iberia (attuale Georgia) e a nord del fiume Cyrus (oggi Kura), corrispondente all’odierno Azerbaigian settentrionale e alla parte meridionale del Daghestan.
4) Dichiarazione del ministero della Cultura della Repubblica di Azerbaigian, del 7-2-2022, nel sito web <https://culture.gov.az/en/common-news/14102> (gli indirizzi internet dell’intero articolo sono stati consultati il 4-3-2024).
5) «La Repubblica dell’Azerbaigian, in conformità con i suoi obblighi ai sensi della Convenzione Internazionale sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale, dovrà prendere tutte le misure necessarie per prevenire e punire atti di vandalismo e profanazione che colpiscono il patrimonio culturale armeno, inclusi ma non limitati a chiese e altri luoghi di culto, monumenti, monumenti, cimiteri e manufatti» (Corte Internazionale di Giustizia, Application of the International Convention on the Elimination of All Forms of Racial Discrimination (Armenia v. Azerbaijan), 7-12-2021 nel sito web <https://www.icj-cij.org/sites/default/files/case-related/180/180-20211207-SUM-01-00-EN.pdf>.
6) Secondo l’Ombudsman dell’Artsakh, nei territori perduti con la guerra del 2020 tale patrimonio ammontava precisamente a 1456 pezzi, così ripartiti: 161 monasteri e chiese, 591 khatchkar, 345 pietre tombali e iscrizioni, 108 cimiteri e sepolture, 43 fortezze e palazzi, 208 altri monumenti.
7) Ministero della Cultura della repubblica di Azerbaijan, The restoration of the Gazanchy Church in Shusha demonstrates the care of the Azerbaijani state for not only its own cultural heritage, but also for the Christian heritage as a whole, 7-5-2021, nel sito web <https://culture.gov.az/en/common-news/13571>.
8) Cfr. il testo del documento, del 10-3-2022, nel sito web <https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/HTML/?uri=CELEX:52022IP0080>.
9) Cfr. il testo del documento, del 14-12-2022, nel sito web <https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/HTML/?uri=CELEX:52022IP0444>.