Nota del 1 marzo 2019
Nel marzo del 1999 Cristianità pubblicava questo articolo di Nicolás Gómez Dávila che a distanza di vent’anni riproponiamo alla attenzione dei nostri lettori.
Nicolás Gómez Dávila, Cristianità n. 287-288 (1999)
El reaccionario auténtico. Un ensayo inédito, in Revista Universidad de Antioquia, n. 240, Medellín aprile-giugno 1995, pp. 16-19. Traduzione redazionale.
Il vero reazionario
L’esistenza del vero reazionario di solito scandalizza il progressista. La sua presenza in qualche modo lo disturba. Di fronte all’atteggiamento reazionario il progressista prova un leggero disprezzo, accompagnato da sorpresa e da inquietudine.
Per placare i propri timori, il progressista è solito interpretare questo atteggiamento inopportuno e urtante come travestimento d’interessi o come sintomo di stoltezza; ma soltanto il giornalista, il politico e lo stupido non si turbano, segretamente, di fronte alla tenacia con cui le più elevate intelligenze d’Occidente, da centocinquant’anni, accumulano obiezioni contro il mondo moderno. Infatti, un disprezzo di compiacenza non sembra la risposta adeguata a un atteggiamento nel quale un Goethe si può affratellare a un Dostoievski.
Ma se tutte le tesi del reazionario sorprendono il progressista, la semplice posizione reazionaria lo sconcerta. Gli sembra una posizione stravagante che il reazionario protesti contro la società progressista, la giudichi e la condanni, ma che si rassegni al suo attuale monopolio della storia.
Il progressista radicale, da un canto, non comprende come il reazionario condanni un fatto che ammette, e il progressista liberale, dall’altro, non capisce come ammetta un fatto che condanna. Il primo pretende che rinunci a condannare se riconosce che il fatto è necessario, e il secondo che non si limiti a rinunciare se confessa che il fatto è riprovevole. Quegli pretende da lui che si arrenda, questi che agisca. Entrambi condannano la sua passiva adesione alla sconfitta.
Infatti, il progressista radicale e il progressista liberale rimproverano il reazionario in modo diverso, perché l’uno sostiene che la necessità è ragione, mentre l’altro afferma che la ragione è libertà. Una diversa visione della storia condiziona le loro critiche.
Per il progressista radicale necessità e ragione sono sinonimi: la ragione è la sostanza della necessità e la necessità il processo nel quale la ragione si realizza. Entrambe costituiscono un unico torrente di esistenze.
La storia del progressista radicale non è la somma di quanto è semplicemente accaduto, ma un’epifania della ragione. Anche quando insegna che il conflitto è il meccanismo vettore della storia, ogni superamento risulta da un atto necessario, e la serie discontinua degli atti è il sentiero tracciato dai passi della ragione inevitabile avanzando sulla carne vinta.
Il progressista radicale accetta solo l’idea cauzionata della storia, perché il profilo della necessità rivela i tratti della ragione nascente. Dal corso stesso della storia emerge la norma ideale che lo corona.
Convinto della razionalità della storia, il progressista radicale si assegna il compito di collaborare al suo successo. Il fondamento dell’imperativo etico sta, per lui, nella nostra possibilità di spingere la storia verso i suoi fini specifici. Il progressista radicale si piega sul fatto imminente per favorire la sua realizzazione, perché, agendo nel senso della storia, la ragione individuale coincide con la ragione del mondo.
Per il progressista radicale, quindi, condannare la storia non è soltanto un’impresa vana, ma anche un’impresa stolta. Impresa vana, perché la storia è necessità; impresa stolta, perché la storia è ragione.
Invece il progressista liberale si pone in una semplice contingenza. Per lui la libertà è sostanza della ragione e la storia è il processo in cui l’ uomo realizza la sua libertà.
La storia del progressista liberale non è un processo necessario, ma l’ascesa della libertà umana verso il pieno possesso di sé stessa. L’uomo forgia la propria storia imponendo alla natura le decisioni della propria libera volontà.
Se l’odio e l’avidità trascinano l’uomo in labirinti sanguinosi, la lotta si realizza fra libertà pervertite e libertà rette. La necessità è semplicemente il peso opaco della nostra personale inerzia, e il progressista liberale pensa che la buona volontà possa riscattare l’uomo, in qualunque momento, dalle servitù che lo opprimono.
Il progressista liberale pretende che la storia si comporti in conformità con quanto postula la sua ragione, dal momento che la crea la libertà; e, siccome la sua libertà genera anche le cause che vieta, nessun fatto può aver la meglio sul diritto istituito dalla libertà.
Nell’atto rivoluzionario si condensa l’imperativo etico del progressista liberale, perché spezzare quanto l’ostacola è l’atto essenziale della libertà che si realizza. La storia è una materia inerte lavorata da una volontà sovrana.
Per il progressista liberale, dunque, rassegnarsi alla storia è un atteggiamento immorale e stolto. Stolto, perché la storia è libertà; immorale, perché la libertà è la nostra essenza.
Ma il reazionario è lo stolto che fa proprie la presunzione di condannare la storia e l’immoralità di rassegnarsi a essa.
Progressismo radicale e progressismo liberale elaborano visioni parziali. La storia non è né necessità né libertà, ma la loro integrazione flessibile.
Infatti la storia non è un mostro divino. Non sembra che il polverone umano si sollevi come sotto l’alitare di una bestia sacra; non sembra che le epoche si ordinino come stadi nella nascita embrionale di un animale metafisico; i fatti non si dispongono gli uni rispetto agli altri come squame di un pesce celeste.
Ma, se la storia non è un sistema astratto che germina sulla base di leggi implacabili, non è neppure docile alimento della follia umana. La capricciosa e gratuita volontà dell’uomo non è il suo rettore sommo. I fatti non si modellano come una pasta viscosa e plastica fra dita operose.
Infatti, la storia non deriva da una necessità impersonale, né dal capriccio umano, ma da una dialettica della volontà dalla quale l’opzione libera si svolge in conseguenze necessarie.
La storia non si sviluppa come un processo dialettico unico e autonomo, che prolunga in dialettica vitale la dialettica della natura inanimata, ma in un pluralità di processi dialettici, numerosi come gli atti liberi e adeguati alla diversità delle loro basi carnali.
Se la libertà è l’atto creatore della storia, se ogni atto libero genera una storia nuova, il libero atto creatore si proietta sul mondo in un processo irrevocabile. La libertà secerne la storia come un ragno metafisico la geometria della sua tela.
Infatti la libertà si aliena nello stesso gesto in cui si assume, perché l’atto libero possiede una struttura coerente, un’organizzazione interna, una proliferazione normale di conseguenze. L’atto si dispiega, si dilata, si espande in conseguenze necessarie, in conformità con il suo carattere interno e con la sua natura intelligibile. Ogni atto assoggetta una parte di mondo a una configurazione specifica.
Pertanto la storia è un incastro di libertà concretizzate in processi dialettici. Tanto più è profondo lo strato al quale nasce l’atto libero, tanto più sono varie le zone di attività determinate dal processo, e maggiore la sua durata. L ’ atto superficiale e periferico si esaurisce in episodi biografici, mentre l’atto centrale e profondo può creare un’epoca per una società intera.
Così la storia si articola in momenti e in epoche: in atti liberi e in processi dialettici. I momenti sono la sua anima fuggitiva, le epoche il suo corpo tangibile. Le epoche si estendono come intervalli fra due momenti: il suo momento germinale e il momento in cui la chiude l’ atto iniziale di una nuova vita. Su gangheri di libertà girano porte di bronzo.
Le epoche non hanno una durata immutabile: l’incontro con processi sorti da una maggiore profondità le può interrompere, l’inerzia della volontà le può prolungare. La conversione è possibile, la passività consueta. La storia è una necessità generata dalla libertà e strozzata dalla causalità.
Le epoche collettive sono il risultato di una comunione attiva in una decisione identica, o della contaminazione passiva di volontà inerti; ma, finché dura il processo dialettico in cui le libertà si sono trasformate, la libertà del non conformista si ritorce in una ribellione inefficace. La libertà sociale non è un’opzione permanente, ma allentamento improvviso nell’articolazione delle cose.
L’esercizio della libertà suppone un’intelligenza sensibile alla storia, perché davanti alla libertà alienata di tutta una società solo l’uomo può cogliere il rumore della necessità che si spezza. Ogni proposito fallisce se non s’inserisce nelle fessure principali di una vita.
Di fronte alla storia si leva solamente l’imperativo etico di operare quando la coscienza approva la finalità che al momento è dominante o quando le circostanze culminano in una congiuntura propizia alla nostra libertà.
L’uomo posto dal destino in un’epoca senza fine prevedibile, e il cui carattere ferisce le nervature più profonde del suo essere, non può sacrificare frettolosamente la sua ripugnanza ai suoi tratti gentili, né la sua intelligenza alla sua vanità. Il gesto spettacolare e vano merita il plauso pubblico, e il disprezzo di quanti la meditazione invoca. Nei momenti oscuri della storia l’uomo si deve rassegnare a rodere pazientemente le superbie umane.
Così l’uomo può condannare la necessità senza contraddirsi, anche se può operare solo quando la necessità crolla.
Se il reazionario ammette la sterilità attuale dei propri princìpi e l’inutilità delle sue condanne non è perché gli basta lo spettacolo delle confusioni umane. Il reazionario non si astiene dall’agire perché lo spaventa il rischio, ma perché pensa che attualmente le forze sociali si riversano rapide verso una meta che disdegna. Nell’attuale processo le forze sociali hanno scavato il proprio alveo nella roccia e niente muterà il loro corso finché non sboccheranno sul liscio di una pianura ignota. Il gesticolare dei naufraghi manda soltanto i loro corpi alla deriva parallelamente a una diversa spiaggia.
Ma se il reazionario è impotente nel nostro tempo, la sua condizione lo obbliga a testimoniare la sua ripugnanza. La libertà, per il reazionario, è soggezione a un ordine.
Infatti, anche quando non sia né necessità né capriccio, tuttavia la storia non è per il reazionario dialettica della volontà immanente, ma avventura temporale fra l’uomo e quanto lo trascende. Le sue opere sono tracce, sulla sabbia smossa, del corpo dell’uomo e del corpo dell’angelo. La storia del reazionario è un brandello, strappato dalla libertà dell’uomo, che sventola al soffio del destino.
Il reazionario non può tacere, perché la sua libertà non è solo l’asilo in cui l’uomo sfugge al traffico che lo stordisce e dove si rifugia per riprendere in mano sé stesso. Nell’atto libero il reazionario non prende soltanto possesso della propria essenza.
La libertà non è una possibilità astratta di scegliere fra beni noti, ma la condizione concreta all’interno della quale ci è concesso il possesso di nuovi beni. La libertà non è istanza che risolva contese fra istinti, ma la montagna dalla quale l’uomo contempla l’ascesa di nuove stelle, nella polvere luminosa del cielo stellato.
La libertà pone l’uomo fra divieti che non sono fisici e imperativi che non sono vitali. Il momento libero dissipa la vana chiarezza del giorno, perché si erga, sull’orizzonte dell’anima, l’immobile universo che fa scivolare i suoi lumi passeggeri sul tremore della nostra carne.
Se il progressista si volge al futuro, e il conservatore al passato, il reazionario non misura i propri desideri con la storia di ieri o con la storia di domani. Il reazionario non plaude a quanto porterà l’alba prossima, né si aggrappa alle ultime ombre della notte. La sua abitazione si leva nello spazio luminoso in cui le essenze lo chiamano con le loro presenze immortali.
Il reazionario sfugge alla schiavitù della storia perché ricerca nella selva umana l’orma di passi divini. Gli uomini e i fatti sono, per il reazionario, una carne servile e mortale animata da venti di tramontana.
Essere reazionario significa difendere cause che non girano sulla scacchiera della storia, cause che non importa perdere.
Essere reazionario significa che ci limitiamo a scoprire quanto crediamo d’inventare; significa ammettere che la nostra immaginazione non crea, ma svela corpi morbidi.
Essere reazionario non significa abbracciare determinate cause, né patrocinare determinati fini, ma assoggettare la nostra volontà alla necessità che ci costringe, arrendere la nostra libertà all’ esigenza che ci spinge; significa trovare le evidenze che ci guidano addormentate sulla riva di stagni millenari.
Il reazionario non è il sognatore nostalgico di passati conclusi, ma il cacciatore di ombre sacre sulle colline eterne.
Nicolás Gómez Dávila (1913-1994)