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In morte di un eroe

28 Aprile 2018 - Autore: Marco Invernizzi

Di Marco Invernizzi

San Giovanni Paolo II (1978-2005) non sapeva, quando nel 1984 pubblicò la Lettera apostolica Salvifici doloris, che le sue parole e soprattutto le sue domande sulla sofferenza avrebbero avuto una eco 34 anni dopo, di fronte alla sofferenza e poi alla morte del piccolo Alfie Evans (2016-2018). Perché, si chiedeva il Pontefice, perché la sofferenza, il male, il dolore dell’innocente? È la domanda, tremenda, che ci colpisce ogni volta, così come ci colpì un anno fa, sempre in Inghilterra, con il caso analogo di un altro bambino innocente, colpito da una malattia genetica e vittima della violenza indifferente dei “potenti”, Charlie Gard (2016-2017). Sono tornato a rileggere le parole di Papa Wojtyla. Non ho trovato la risposta al perché del male che gli hanno inflitto medici e giudici, e anche alcuni giornalisti, con un accanimento disumano e privo di ogni buon senso, ma ho trovato la speranza, quella forza che solo la fede può darci, quando ricorda che la felicità eterna passa attraverso il dolore della Croce e soprattutto attraverso la testimonianza del Crocifisso.

«Ogni uomo ha una sua partecipazione alla redenzione. Ognuno è anche chiamato a partecipare a quella sofferenza, mediante la quale si è compiuta la redenzione», si legge nella Salvifici doloris. Questo vale anche e soprattutto per gli innocenti, come Alfie e come Charlie: «Questo vuol dire, forse, che la redenzione compiuta da Cristo non è completa? No. Questo significa solo che la redenzione, operata in forza dell’amore soddisfattorio, rimane costantemente aperta ad ogni amore che si esprime nell’umana sofferenza», spiega il Pontefice.

Quindi la sofferenza di Alfie e il dolore patito dai suoi genitori non sono serviti soltanto a risvegliare coscienze, a porre domande importanti sul futuro dell’umanità e sui rapporti fra il potere degli Stati e la libertà dei cittadini, ma sono entrati in una dimensione misteriosa più grande che riguarda il legame fra la salvezza eterna degli uomini e la sofferenza degli innocenti.

«Quanto più l’uomo è minacciato dal peccato», continua san Giovanni Paolo II, «quanto più pesanti sono le strutture del peccato che porta in sé il mondo d’oggi, tanto più grande è l’eloquenza che la sofferenza umana in sé possiede. E tanto più la Chiesa sente il bisogno di ricorrere al valore delle sofferenze umane per la salvezza del mondo».

Oggi l’uomo è molto minacciato dal peccato, più ancora che nel 1984, nonostante sia caduta nel frattempo la minaccia odiosa dell’estendersi in tutto il mondo della violenza del comunismo. Perché il male si presenta come “normale”, nascondendosi dietro camici bianchi e toghe nere, e pretende di uccidere nel migliore interesse del bambino, estromettendo dalla decisione persino i genitori.

Ma, scriveva il papa polacco, «[…] il buon Samaritano della parabola di Cristo non si ferma alla sola commozione e compassione. Queste diventano per lui uno stimolo alle azioni che mirano a portare aiuto all’uomo ferito. Buon Samaritano è, dunque, in definitiva colui che porta aiuto nella sofferenza, di qualunque natura essa sia». Con la testimonianza della sua sofferenza, Alfie è stato un Buon Samaritano e continua a esserlo nella misura in cui la sua vicenda aiuterà a riflettere su quanto accaduto, e quindi ad aprire occhi, a interrogare coscienze, a preoccupare i responsabili di altri ospedali, di altre Corti di giustizia e di altri Stati e governi.

Carissimo bambino, grazie, sia per quello che hai fatto, sia per quello che continuerai a fare e a far fare. La tua bella testimonianza contribuirà a fare nascere in molti la speranza nella felicità eterna, speranza strettamente legata alla sofferenza, soprattutto dell’innocente. Come te.

Sabato, 28 aprile 2018

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