Il San Giuseppe col Bambino Gesù del pittore bolognese rappresentò una svolta nell’iconografia del padre adottivo del Messia. Il merito della sua scoperta è da ascrivere al card. Cesare Monti
di Michele Brambilla
Il pittore bolognese Guido Reni (1575-1642) dipinse tra il 1625 e il 1635 (la data è incerta) un San Giuseppe col Bambino Gesù. Era la prima volta che lo sposo di Maria veniva ritratto da solo con il Bambino. La tela di Reni “rompeva”, infatti, una consuetudine che fino al XVII secolo aveva relegato san Giuseppe al ruolo di silenzioso comprimario nel contesto della Natività o dell’Adorazione dei Magi. Qui, invece, Gesù e il padre adottivo si guardano intensamente negli occhi, con tenerezza, mentre la luce solare mette bene in evidenza i capelli bianchi, le rughe del volto e i calli sulle mani dell’anziano falegname. Non è un’evidenziazione crudele, da memento mori, ma un sereno Nunc dimittis: la discendenza di Betsabea (Mt 1,6) abbraccia Colui che toglie il peccato del mondo e contempla, compiaciuta, il compimento delle promesse messianiche. Per esaltare ulteriormente le figure umane, Reni sceglie di tratteggiare lo sfondo in maniera molto elementare, anticipando gli sfondi “monocromi” di Francesco Hayez (1791-1882). Manca solo un particolare, che poi diverrà canonico anche nelle copie successive del dipinto: la verga fiorita, che rimanda al Protovangelo di Giacomo (cap.9), nel quale si narra la designazione dello sposo di Maria in seguito alla fioritura miracolosa del bastone che portava con sé.
Il San Giuseppe col Bambino Gesù è una di quelle opere destinate ad imprimersi nell’immaginario collettivo del popolo cristiano, ma all’epoca (prima metà del Seicento), per quanto cominciasse a farsi strada una certa devozione verso san Giuseppe, il soggetto non riuscì a fare breccia nella propensione filo-mariana dell’arte sacra. Del resto, il Figlio del falegname non era esattamente figlio del falegname: dietro la ritrosia ad accettare l’iconografia di Reni si nascondevano serie preoccupazioni dottrinali, eredità della lotta contro l’arianesimo (Cristo solo uomo) e il monofisismo (Cristo solo Dio) nei secoli IV-V. Non è un caso che il San Giuseppe di Reni sia stato destinato, inizialmente, ad ambienti privati (è catalogato precisamente come “quadro da stanza”), ma fu notato e acquistato dal card. Cesare Monti (1593-1650), arcivescovo di Milano (1632-50), che lo volle inserire nella sua quadreria personale. Quando il beato Pio IX (1846-78), nel 1870, proclamò san Giuseppe patrono universale della Chiesa con la Quemadmodum Deus, il quadro di Reni, oggi conservato presso il Museo diocesano di Milano, era pronto a “contaminare” l’iconografia delle chiese lombarde.
Si può prendere a titolo d’esempio di questa produzione tardo-ottocentesca la statua di san Giuseppe presente nella chiesa parrocchiale di Camporicco, frazione di Cassina de’ Pecchi. L’opera è in gesso, dalla datazione incerta (non viene censita nelle visite pastorali del 1897, 1904 e 1911), ma il suo esecutore, rimasto anonimo, si è ispirato all’opera di Reni senza farne una riproduzione pedissequa. Non è, infatti, un san Giuseppe anziano, ma nel fiore degli anni. Lo sguardo è fiero, e l’uomo pare avanzare verso la navata con un piglio decisamente virile, sorreggendo il Bambino da una parte e il bastone fiorito dall’altra. Il Bambino Gesù, che ha i tratti tipici di un neonato nei suoi primi mesi di vita, stringe tra le mani il globo della sovranità universale e scruta i fedeli con occhi azzurrissimi. La resa dell’incarnato e delle vesti è talmente realistica che non sembra di avere davanti delle statue, ma le stesse persone ritratte.
Sabato, 6 marzo 2021