Di Giampaolo Visetti da Repubblica del 03/09/2021
“Se fossi credente mi sentirei davanti a un miracolo. Da trent’anni però opero chi è colpito dal cancro: i contorni della mia idea di fede si sono progressivamente offuscati. Così non posso che definire incredibile quello ho visto”.
Il professor Lorenzo Spaggiari, 60 anni, emiliano, direttore della chirurgia toracica dell’Istituto europeo dei tumori e docente all’università di Milano, abitava con la famiglia l’ultimo piano della Torre dei Moro.
“Il soffitto è crollato e abbiamo perso tutto. Bruciata e sciolta dal calore anche la cassaforte inserita nel muro. Soltanto una cosa non solo è salva, ma intatta: un crocefisso. Lo conservavo in una bustina di plastica: come nuova anche quella. Incredibile: mia moglie si è messa quella croce al collo e non vuole toglierla più”.
Perché è tanto colpito da questo episodio?
“Siamo proprietari del diciottesimo piano. In duecento metri quadri non è recuperabile uno spillo e ho visto la mia casa bruciare in diretta tivù. L’unico oggetto ad essere riemerso dalle macerie, in perfetto stato dentro una cassaforte liquefatta, è quella piccola croce d’oro. Inutile negarlo, la mia famiglia è scossa”.
Non può essere un caso?
“Se lo è, è un caso che turba. Anche perché non si è verificato da solo”.
Cosa intende dire?
“Domenica mia moglie voleva restare a casa. L’ho infine convinta ad andare qualche ora al mare in Liguria con i bambini. Non avevo mai insistito prima. Se non fossimo usciti, trovandoci al di sopra delle fiamme scoppiate più in basso, saremmo stati in trappola. Spesso nel fine settimana stavamo a giocare e a riposare nel soppalco al diciannovesimo piano. La coincidenza, grazie a cui siamo vivi, ci ha turbato: ritrovare poi tra i detriti solo una croce, sparata fuori dal muro, lascia increduli”.
Ora è prima mattina: cosa ci fa lei ai piedi del grattacielo sotto sequestro?
“Passo prima di andare in ospedale. Sono tornato a operare già lunedì e lavoro ogni giorno. Chi ha un tumore non può aspettare. La mattina dopo il rogo ero atteso da diciassette pazienti. Io avevo perso la casa, ma loro rischiavano di perdere la vita”.
Come riesce, dopo il disastro, a concentrarsi subito su un lavoro tanto delicato?
“È l’opposto: operare mi aiuta a resistere. Da lunedì la mia empatia con i malati e con le loro famiglie è più forte. Ora sono loro ad aiutare me. Vedo la dignità con cui affrontano il dolore: mi vergognerei a dare la precedenza alla mia casa. Quando si incontra la propria disperazione si comincia a capire meglio quella degli altri”.
Quando aveva acquistato l’appartamento?
“Prima che esistesse, ancora sulla carta. Poi ho visto il grattacielo nascere. L’ho scelto per stare vicino allo Ieo. Sono sempre reperibile: in dieci minuti potevo essere in sala operatoria”.
E adesso?
“Un amico mi ha prestato 60 metri quadri. Negli ultimi dieci anni siamo vissuti su un piano intero, per la famiglia accontentarsi è un’esperienza preziosa. Un chirurgo può guardare alla vita da una prospettiva complessa. Lei però non dimentichi ora l’essenziale: quel crocifisso salvato all’ultimo piano.
Tutti i residenti nel grattacielo lo considerano un miracolo perché il rogo non ha causato vittime. Lasci che io possa pensare quantomeno a un inspiegabile prodigio”.
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