Testo di S.E. Mons. Giuseppe Mani, Ordinario Militare per l’Italia, trascritto da il Cursore. Periodico della Diocesi per i Militari Italiani, anno V, n. 7-8, Roma luglio-agosto 2001, p. 1.
Dinanzi alle scene di guerra che si sono verificate nelle vie di Genova in occasione del G 8 e che la televisione continua a propinarci quasi ogni giorno, ho sempre in mente due domande: “È questo il modo di aiutare i poveri? È quello il modo per rappresentarli?”. Sono certo di no. Eppure il pretesto sembra essere quello.
I nostri militari e poliziotti erano lì, una delle due parti in lotta e non dobbiamo dimenticare che c’erano per fronteggiare ogni forma di violenza che impedisse il libero svolgimento dei lavori. Lo scontro tra due gruppi: uno violento e disposto a tutto con atti di vandalismo e peggio e l’altro, rappresentante dell’ordine pubblico, che poteva usare la forza per impedire la violenza. La differenza tra i due gruppi era tutta qui: violenza e forza, la forza che doveva dominare la violenza senza diventare violenza essa stessa. È questo il tema fondamentale per noi militari e che la nostra Chiesa ha affrontato nel suo primo Sinodo.
L’uso della forza è la caratteristica del militare. Quando la ragione non basta e tutte le trattative sono fallite, la società può difendersi con l’uso della forza che delega appunto alle Forze Armate e i cui uomini “se rettamente compiono il loro dovere, sono ministri della sicurezza e della libertà dei popoli e concorrono veramente alla stabilità della pace” come dice il Vaticano II.
La forza e il coraggio sono le caratteristiche fondamentali del soldato, la tentazione maggiore è quella della violenza. Il soldato cristiano deve superare questa tentazione e non soltanto non far degenerare la forza in violenza, quanto piuttosto farla diventare fortezza, che è una delle quattro virtù cardinali. Come avviene questa trasformazione? Essendo padroni della propria forza e coniugandola con le virtù della giustizia e della prudenza, cioè usare la forza per motivi giusti e nella misura necessaria per dominare la violenza.
In uno scontro frontale con la violenza non è facile individuare la linea di demarcazione tra forza e violenza, anche perché in quel momento lì giocano molti elementi, non esclusa la paura di essere sopraffatti e la legittima difesa. Può essere facile proiettare immagini a senso unico facendo prevalere la tesi che la forza è sfociata in violenza, mentre l’attento esame della situazione e l’ascolto delle persone possono rivelare una realtà più complessa e veramente difficile da giudicare.
Si è avuta la chiara sensazione che le Forze dell’Ordine, nonostante le varie dichiarazioni ufficiali, si siano sentite sole e neppure sostenute dalla Chiesa. In questo senso ho letto il documento del COCER che chiedeva la soppressione dell’Ordinariato militare perché i cappellani non si erano schierati con loro, come altri preti hanno fatto con i dimostranti. Ho risposto loro che i cappellani erano presenti come sempre con i loro carabinieri e soldati e la loro presenza era quella di preti che sanno esser vicino a chi compie il proprio dovere e lo aiuta a compierlo in modo cristiano. Neppure uno di loro è apparso in televisione, e questo è positivo e nel caso lo trovo molto sacerdotale. Ma secondo il nostro stile siamo stati vicini soprattutto a coloro che portavano i segni della violenza a qualunque parte appartenessero ed avevano bisogno di sostegno per compiere il loro dovere.
A tutti quei giovani appartenenti alle Forze dell’Ordine presenti a Genova, vorrei associare il ricordo di coloro che, impegnati in missioni di pace nei Balcani, difendono “la sicurezza e la libertà dei popoli” e a loro rischio e pericolo si impegnano con la forza per contrastare ogni tipo di violenza. Alla magistratura italiana l’arduo compito di discernere tra fortezza e violenza, per esaltare la prima e condannare la seconda. Ma l’impresa non è facile.
+ Mons. Giuseppe Mani
Ordinario Militare per l’Italia