di Valter Maccantelli
Nei giorni scorsi sono stati resi noti i risultati delle elezioni tenutesi in Indonesia a partire dal 17 aprile. La tornata elettorale ha coinvolto tutti i livelli politici della più popolosa nazione islamica del mondo (270 milioni di abitanti, 80 % di musulmani), da quello presidenziale fino ai consigli locali, passando per il rinnovo dell’assemblea parlamentare, per un totale di 20.500 candidati in lizza.
L’Indonesia è uno di quei Paesi dalla demografia sterminata, che rende enormi tutti i numeri in campo. Basti pensare che le elezioni in oggetto sono durate più di un mese, hanno riguardato 193 milioni di elettori, organizzati in 810mila seggi sparsi su 18mila isole, i quali, per votare ‒ con il sistema dell’impronta digitale ‒ hanno consumato 1,6 milioni di bottiglie di inchiostro, rigorosamente certificato halal.
Trattandosi di uno stato a forte impronta presidenzialista, il risultato più atteso era quello delle presidenziali, nelle quali è stato confermato, per un secondo mandato, Joko Widodo. Con il 55,5 % dei voti, Widodo ha sconfitto lo sfidante più accreditato, Prabowo Subianto ‒ ex generale, genero dell’ex uomo forte di Jakarta, Haji Mohammad Suharto (1921-2008), nonché candidato del fronte islamico più radicale ‒, fermatosi al 43,5 %.
Widodo, soprannominato “Jokovi”, è esponente di un’area politica che, pur con molti distinguo, può essere definita moderata, almeno per il contesto locale. La sua dottrina politica di riferimento, la Pancasila, costituisce la piattaforma della Costituzione indonesiana. Essa si fonda su un principio nazionalista per il quale chiunque è indonesiano, a qualunque religione (purché monoteista) o etnia appartenga, è titolare di un diritto alla tutela delle libertà da parte dello Stato. Nel concreto il principio ha però tollerato numerose eccezioni durante il primo mandato presidenziale di “Jokovi”.
Come riporta AsiaNews, i sostenitori del candidato sconfitto hanno contestato l’esito del voto invitando a uno «jihad costituzionale» e dando luogo a grandi manifestazioni di protesta che sono anche degenerate in scontri violenti con la polizia.
I fondamentalisti islamici indonesiani non sono nuovi a queste forme di protesta di massa: nel 2016 l’Islamic Defender Front, una formazione politica islamista, aveva incitato alla rivolta contro il governatore di Jakarta, Basuki “Ahok” Tjahaja, cristiano cittadino cinese , accusato di blasfemia per avere citato un versetto del Corano in un comizio e per questo condannato a due anni di reclusione.
Nonostante la Costituzione indonesiana sancisca il diritto di ogni cittadino a scegliere la religione e garantisca la libertà di culto, il fondamentalismo islamico ha sempre trovato nel suo arcipelago un fertile terreno.
La radicalizzazione religiosa è cominciata negli anni 1970 con la penetrazione della predicazione fondamentalista operata mediante una rete di scuole e di centri culturali di ispirazione wahabbita, finanziata dal sistema educativo saudita.
Anche se per circa un decennio, a cavallo fra il secolo XX e il XXI, questa predicazione ha vagheggiato la possibilità di un islam religiosamente conservatore e politicamente moderato appare evidente che la situazione stia sfuggendo di mano.
Oggi molti personaggi passati attraverso questo percorso formativo sono a capo delle principali organizzazioni jihadiste operanti sul territorio. A partire dal 2000 il Paese è stato oggetto di un crescendo di azioni terroristiche, Basti ricordare gli attentati di Bali nel 2002 costati 200 morti e attribuiti alla Jamaah Islamiayah (JI), la sigla autoctona più nota, poi sostanzialmente smantellata dalla polizia.
Con l’avvento dell’ISIS, nel 2014, gli eredi della JI si sono addestrati con lo Stato Islamico e hanno combattuto per esso. Dopo il suo crollo, stanno ora tornando in patria forti di un solido know how terroristico. Questi combattenti non operano del resto solo all’interno dei confini indonesiani, ma animano azioni violente in tutta la regione, specialmente nel sud delle Filippine. Si ritiene infatti che 70 miliziani indonesiani abbiano partecipato alla battaglia di Marawi, sull’isola filippina di Mindanao nel 2017.
In parallelo si è sviluppato un consistente fronte politico che aspira a trasformare il Paese in uno stato islamico di stampo shariatico. Questo schieramento ‒ che alle elezioni sosteneva Prabowo Subianto e che quindi ora risulterebbe sconfitto – ha comunque lavorato in questi anni a livello politico locale e amministrativo forzando l’introduzione di regolamenti e di leggi che, con il solito pretesto della repressione della blasfemia, autorizzano episodi di forte persecuzione contro le minoranze non islamiche. Ancora fresco è il ricordo degli assalti a tre chiese cristiane del maggio 2018 nella città indonesiana di Surabay, quando vennero uccise 23 persone.
Le prime vittime di questa escalation sono peraltro i cristiani, che nel Paese contano 24 milioni di anime, ma una destabilizzazione dell’area da parte degli islamisti sarebbe destinata a ripercuotersi fortemente sul piano geopolitico. L’arcipelago indonesiano incorpora di fatto tutti gli stretti marittimi critici della regione, attraverso i quali passa la totalità del traffico navale verso la Cina, il Giappone, le Filippine e l’Australia.
Posizionata al centro dello scacchiere sul quale si sta giocando una delle partite più importanti dello scontro fra Stati Uniti d’America e Cina, ciascuno con a fianco i propri alleati regionali, l’Indonesia meriterebbe un’attenzione assai superiore a quella che sta ottenendo nell’opinione pubblica nostrana.
Lunedì, 27 maggio 2019