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Industrializzazione e opera d’arte

8 Giugno 2019 - Autore: Daniele Fazio

di Daniele Fazio

Pensatori tra di loro diversi, per formazione e per sensibilità, hanno riflettuto sull’esperienza estetica nell’era dell’industrializzazione, intesa, quest’ultima, come prodotto tra i più imponenti, non solo della modernizzazione nel senso di un ovvio sviluppo scientifico e tecnologico, ma, accanto a questa, e talora fagocitando questa, almeno nelle intenzioni ideologiche di alcuni, anche della «modernità» in senso filosofico, nella direzione di un trionfo, almeno in Occidente, di una visione secolarizzata della realtà e dell’uomo.

Tra i primi a rendersi conto del mutamento epocale verificatosi nell’esperienza estetica nell’era dell’esplosione della tecnica vi è il filosofo tedesco Walter Benjamin (1892-1940), uno degli antesignani della cosiddetta Scuola di Francoforte. In un saggio del 1936, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (raccolto nel volume L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Arte e società di massa, trad. it., prefazione di Cesare Cases, nota di Paolo Pullega, Einaudi, Torino 2000), Benjamin punta l’attenzione sullo smarrimento di quella che chiama «aura» dell’opera d’arte a causa della sua riproducibilità seriale prodotta dall’avvento e dalla diffusione della fotografia. Per il filosofo tedesco, l’«aura» ha a che fare con l’origine primigenia di un’opera d’arte presente nell’ambito cultuale dapprima di tipo magico e poi di carattere religioso. Arte, quindi bellezza, e religione caratterizzano così un momento unico, grazie al quale viene favorita l’attività contemplativa dell’uomo e, tramite essa, l’incontro con l’essere.

La stragrande maggioranza delle opere d’arte assumevano senso in quanto espressione di un orizzonte rituale, e ciò è vero in tutte le civiltà antiche. Tra l’altro, neanche il culto di una bellezza intesa solo in senso profano, tipico dei secoli post-rinascimentali, era altresì riuscito a smarrire quell’orizzonte in cui l’esperienza estetica dell’uomo si legava strettamente alla sua dimensione, latu senso, spirituale. La prima vera crisi, dunque, si verificò – secondo Benjamin – «[…] con la nascita del primo mezzo di riproduzione veramente rivoluzionario (contemporaneamente al delinearsi del socialismo)» (ibid., p. 26).

La reazione ‒ prosegue la diagnosi di Benjamin ‒ è allora stata quella dell’elaborazione di una teoria che salvasse l’arte per l’arte, ovvero di una visione di bellezza fine a stessa e non utile ad uno scopo.

Sul versante della diversificazione tra utile e bellezza ha meditato anche il filosofo cattolico francese Étienne Gilson (1884-1978), che nel saggio Arti plastiche di massa, raccolto nel volume, La società di massa e la sua cultura (trad. it., presentazione di Gianfranco Bettetini, Vita e Pensiero, Milano 1981), specifica come la finalità delle produzioni seriali delle industrie non è in sé la bellezza – benché quelle produzioni possano pure essere belle –, bensì la funzionalità, l’utilità. L’opera d’arte, invece, frutto di un’artista e non di una macchina, ha come unica finalità la bellezza, quindi un orizzonte, lo si riconosca o meno, spirituale. Eppure, riprodotta nei cataloghi che la diffondono e che la “democratizzano”, l’opera d’arte diviene anch’essa prodotto di consumo codificato in termini di spesa e di guadagno. Per Gilson, «[…] la sedicente democratizzazione del bello plastico è il più delle volte un inganno interessato» (ibid., p. 39), effettuato ai danni di un pubblico che si illude di fruire un’opera d’arte e che, invece, gode solo di una delle sue numerose copie, perdendo il contatto con la collocazione originaria dell’opera d’arte stessa e della sua funzione principale. Il fine dell’industria non può essere, infatti, la bellezza, bensì il profitto, e quindi, fa notare Gilson, «la bellezza non si traduce in dollari» (ibid.,p. 47).

Il problema ultimo, tuttavia, non sta neanche nel fatturato dell’“industria culturale”, ma nel fatto che l’industrializzazione dell’opera d’arte produca la sostituzione dell’oggetto con una sua riproduzione, che «[…] ha come conseguenza la creazione di una pseudo-esperienza estetica talmente agevolata, che tende a sostituire l’esperienza autentica» (ibid., p. 42). Nella modernità, dunque, l’esperienza estetica è continuamente esposta a una falsificazione dei dati, ragion per cui la bellezza si allontana sempre più dall’uomo, rischiando di essere fraintesa con l’utile. Sicuramente un grande apporto a questa tendenza viene oggi dalla digitalizzazione di molte opere d’arte, che permettono agli utenti visite virtuali da effettuarsi comodamente da casa o da dove si voglia, basta avere un tablet.

D’altro canto, però, non si può nascondere come la diffusione in cartoline o poster di opere d’arte o la loro digitalizzazione possano, in qualche modo, stimolare l’attenzione dell’uomo contemporaneo che andrebbe aiutato a non rimanere alla riproduzione dell’opera in sé, attraverso un percorso che conduca all’originale e davanti a esso accedere all’esperienza della contemplazione, che supera la restrizione di una ragione strumentale, tipica della modernità.

Sabato, 8 giugno 2019

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