Ci riteniamo tutti spontanei, liberi, anticonformisti e alieni dai formalismi: atteggiamenti così diffusi da diventare un nuovo conformismo.
di Stefano Chiappalone
A guardarsi e a sentire in giro, non possiamo non dirci anticonformisti: nessuno ama sottostare a vincoli, direttive e imposizioni, preferiamo sentirci tutti liberi e spontanei. Tuttavia, è il prefisso «anti» che non torna: «anti» significa «contro», ma contro cosa? Quale sarebbe oggi il conformismo opprimente da cui liberarsi? Anticonformista, stando alla vulgata, è colui che sfida i dogmi o almeno l’opinione dominante in ambito sociale, culturale e religioso, chi non pensa come la maggioranza, chi predica e pratica la libertà totale, chi si compiace di lanciare strali contro il sistema, il potere, la casta, a rischio di… Attualmente a rischio di nulla, essendo esattamente gli stessi slogan che si possono udire in una qualsiasi cena di un qualsiasi gruppo di persone, pressoché ovunque e in qualsiasi compagnia vi troviate. È così diffuso questo anticonformismo, da chiedersi dove si sia nascosto il pericoloso e dominante conformismo contro cui ci si scaglia. In effetti, con una delle sue preziose giaculatorie del pensiero, Nicolá Gómez Dávila (1913-1994) osserva che «L’anticonformista si caratterizza per la docilità con cui osserva le mode anticonformiste» (Escolios a un texto implícito. Voll. I e II, Gog Edizioni, Roma 2020, p. 449).
Ora, tale anticonformismo a ogni costo si riflette in tutto ciò che attiene alla dimensione – anche latu sensu – estetica, con quel «disprezzo verso i “formalismi”» che il maestro colombiano fa oggetto di un altro impietoso aforisma (Ibid., p. 148).
È infatti altrettanto diffuso e à la page disprezzare le forme di cortesia, le divise, i rituali, un certo tipo di vestiario o un certo modo di parlare etichettando tutto questo, appunto, come «formalismi», alla stregua di anticaglie di cui liberarsi in fretta, e neanche per depositarle pietosamente in un museo (almeno) ma da gettare direttamente in discarica. Forse soprattutto verso sé stessi o la propria categoria vige una sorta di autocensura dei propri presunti formalismi. C’è il docente universitario che gioca a fare il simpatico e si compiace di scendere dalla cattedra o di sedersi su di essa come se invece di una lezione stesse facendo una chiacchierata informale (salvo mostrarsi con tutt’altro atteggiamento in sede d’esame). Le divise dei controllori ferroviari, almeno sui treni regionali, assumono un aspetto sempre più smart e sempre meno distinguibile. Sui social, ma ne ho già fatto cenno altrove, l’uso del lei è praticamente abolito in base a una legge non scritta, a prescindere dalla differenza di età e di gerarchia degli interlocutori. Vorrei tacere del clero, ma come non vedere quanto è diffusa l’allergia per l’abito talare o almeno per quella versione semplificata chiamata clergyman e quanto è estesa l’abitudine di vestire in borghese (spesso e volentieri anche un borghese di pessimo gusto)? Le forme di cortesia verso le donne sembrano, poi, un vero campo minato, non sia mai che aprire la portiera o pagare la cena a una gentil donzella venga scambiato per sessismo. Persino cedere il posto in autobus è estremamente pericoloso: la signora potrebbe offendersi, perché le stai implicitamente dando della «vecchia». Andò ben peggio a un caro amico che nella sala d’attesa di un medico si alzò prontamente per lasciare la sua sedia a una donna, stupita del gesto. «Ma ci mancherebbe», rispose il galantuomo, «che io non ceda il posto a una donna in stato interessante». Ahi lui, la signora non era «in stato interessante», ma soltanto in sovrappeso.
Un rapido cenno all’abito elegante, relegato a ben poche occasioni, se non direttamente a quella estrema: una volta distesi nella bara, di sicuro il nodo alla cravatta non stringe. Via i formalismi, in nome di una maggiore libertà? No, via i formalismi in nome del nuovo implacabile formalismo dell’informale a ogni costo.
Sabato, 19 febbraio 2022