Intervento tenuto il 2-7-2013 da S. E. mons. Cesare Nosiglia, arcivescovo di Torino, presso la sede torinese di Alleanza Cattolica per la chiusura dell’anno associativo 2012-2013. Le inserzioni fra parentesi quadre, sia nel testo sia nelle note, sono redazionali.
Introduzione
Un vivo grazie per l’invito, che mi ha impegnato a riflettere su un tema di così grande attualità sia ecclesiale che pastorale.
1. Facciamo risuonare anzitutto nel nostro animo le parole profetiche del beato Giovanni XXIII [1958-1963] nell’allocuzione per l’apertura del Concilio Vaticano II [1962-1965]. Da esse possiamo trarre luce per comprendere lo scopo che il Papa indicava con chiarezza per l’assise e quindi il significato positivo di rinnovamento nella continuità della Tradizione della Chiesa in cui il Concilio intendeva muoversi. Dice Papa Giovanni: “Il “punctum saliens” di questo Concilio non è la discussione di un articolo o dell’altro della dottrina fondamentale della Chiesa, dell’insegnamento dei Padri e dei Teologi antichi e moderni, quale si suppone sempre ben presente e familiare allo spirito. Per questo non occorreva un Concilio. Ma la rinnovata, serena e tranquilla adesione a tutto l’insegnamento della Chiesa nella sua interezza e precisione quale ancora splende negli atti Conciliari da Trento al Vaticano primo [1870-1871], lo spirito cristiano, cattolico ed apostolico del mondo intero, attende un balzo in avanti verso una penetrazione dottrinale e una formazione delle coscienze, in corrispondenza più perfetta alla fedeltà all’autentica dottrina, anche questa però studiata ed esposta attraverso le forme dell’indagine e della formulazione letteraria del pensiero moderno. Altra infatti è la sostanza dell’antica dottrina del “depositum fidei”, ed altra è la formulazione del suo rivestimento, ed è di questo che occorre con pazienza tenere in gran conto, misurando tutto nelle forme e proporzioni di un magistero a carattere prevalentemente pastorale” (n. 15).
In pratica il Concilio intendeva rinnovare la Chiesa del XX secolo perché fosse resa sempre più capace di evangelizzare gli uomini suoi contemporanei e, ovviamente, quelli delle generazioni successive. Quindi un Concilio eminentemente pastorale e proteso a quella che oggi chiamiamo “nuova evangelizzazione”, partendo però dalla realtà misterica, sacramentale e storica della Chiesa, rinnovata sotto la guida dello Spirito, per vivere la communio che possiede per grazia anche nella sua realtà e missione pastorale nel mondo, così da diventare sacramento di unità e di pace per l’intero genere umano (cfr. Lumen Gentium, n. 1).
2. Credo che una corretta receptio del Concilio, anche nel nostro oggi ecclesiale e storico, esige un’attenta considerazione, equilibrata e sicura, dei concetti ecclesiologici che guidano le costituzioni conciliari: quello di popolo di Dio e di communio e, in misura minore ma non secondaria, di sacramento (di quest’ultimo parleremo più avanti, al § 5). Non si tratta di termini astratti e tanto meno contrapposti, ma concreti e complementari, dietro i quali però in questi anni si sono come schierati gruppi diversi che hanno cercato di accaparrarsi il Concilio assolutizzando questo o quell’altro aspetto a scapito della sua globalità.
La scelta della categoria “popolo di Dio” accentua e rivela che la Chiesa è soggetto storico che opera nel tempo e si trasforma in un cammino di costante conversione, sorretta dallo Spirito che agisce in essa e nel mondo. Tutto ciò, in continuità con la storia e la vocazione di Israele e in cammino verso il compimento del Regno: questa dinamica di messianicità e di speranza, al seguito del suo Signore e a lui sottomessa, conduce la Chiesa a sentirsi semper reformanda, ma anche certa della presenza di Cristo.
A ciò si aggiunga il fatto che la categoria “popolo di Dio” apre a quella comune vocazione e missione di tutti i membri della Chiesa che scaturisce dalla fraternità, che è dono e compito di ogni battezzato, in quanto fratello o sorella in Cristo di ogni altro membro del suo Corpo. La comune appartenenza all’unico popolo di Dio sancita dal Battesimo che ci fa tutti re, sacerdoti e profeti in Cristo, pur nella differenza gerarchica, anche di sostanza oltre che di servizio tra i ministri ordinati e i laici, e la comune vocazione alla santità fondano dunque la comunità-Chiesa arricchita dai molteplici carismi e doni che lo Spirito suscita.
La categoria di communio a sua volta rappresenta, sia sotto il profilo teologico, sia ecclesiale e pastorale, quella più completa per descrivere la Chiesa. L’ecclesiologia di comunione è diventata un concetto e una realtà che ha segnato la stagione postconciliare e tutt’oggi ne racchiude il contenuto più significativo, in quanto ha conseguenze pastorali in via e ancora da riscoprire e attuare nella loro completa efficacia.
La communio trinitaria che la Chiesa è chiamata a vivere, nel suo essere e nel suo operare nel mondo, fonda la communio sanctorum e la communio fidelium, ma anche le diverse forme di comunicazione e partecipazione corresponsabile di ogni membro della comunità alla sua vita interna e alla sua missione evangelizzante. La forma comunionale, infatti, deve informare di sé sia la collegialità episcopale, sia quella presbiterale e diaconale, come pure le relazioni tra presbiteri e religiosi e religiose e soprattutto con i laici. Infine, fa parte della communio anche quella tra Chiesa universale e Chiese particolari e quella tra loro stesse.
Queste due categorie principali del Concilio, nei suoi vari documenti, sono collegate strettamente tra loro e hanno inciso fortemente nel nuovo assetto anche pastorale e concreto della realtà delle parrocchie e delle diocesi, oltre che delle Conferenze episcopali, negli organismi di partecipazione (consigli presbiterali e pastorali e consigli per gli affari economici, consulte dell’apostolato dei laici…). Sappiamo quanto tutto questo sia stato faticosamente attuato e forse nemmeno ancora del tutto, perché non mancano i malintesi nella mentalità e nella prassi pastorale delle comunità. Il rischio, di vedere mutuata da una moderna pretesa democratica o puramente giuridica l’applicazione concreta alla pastorale di questi orientamenti conciliari, è sempre attuale. Resta pertanto determinante collegare il tema del popolo di Dio e della communio alla realtà misterica della Chiesa che fa provenire da Dio la grazia di ogni ministero e servizio e rende ciascun battezzato corresponsabile in forza non solo del diritto-dovere proprio del dono ricevuto, ma anche del discernimento che i Pastori sono chiamati ad esercitare e in forza di quella autorevolezza che deriva da un’adeguata formazione spirituale, culturale e pastorale, idonea per svolgere ogni compito nella comunità.
Passo ora ad applicare le due categorie principali del Concilio ad alcuni aspetti pastorali di notevole importanza oggi. In primis, la vocazione universale alla santità: il primato di Dio, della Parola, della Liturgia e della Carità, virtù teologale prima che morale (cfr. §§ 3-5). Quindi, vedremo in che rapporto stanno Chiesa e mondo e poi il tema affrontato dal recente Sinodo sulla “nuova evangelizzazione”, che affonda le sue radici nel Concilio (cfr. §§ 6ss.).
Questa è la volontà di Dio: la vostra santificazione (1Ts 4,3)
3. La chiamata alla santità riscoperta e attuata nel tessuto vitale delle nostre comunità e come traguardo possibile di ogni cristiano, rappresenta una delle novità più significative promosse dal Concilio. Da una visione di santità che l’immaginario collettivo dei cristiani aveva ormai confinato nell’orizzonte di persone eroiche e straordinarie, dotate di doni e di carismi eccezionali, avviene il passaggio a una visione feriale e quotidiana della santità, la “misura alta della vita cristiana ordinaria”, come afferma Giovanni Paolo II [beato (1978-2005)] nella Novo Millennio Ineunte (n. 31). Anche Benedetto XVI [2005-2013] l’ha proposta con forza ai giovani stessi più volte, sostenendo che quella della santità è la questione più seria e decisiva della vita.
È questa la conseguenza di quanto il Concilio ha sottolineato sia nella Lumen Gentium, sia in diverse altre costituzioni, partendo dal principio che la vocazione dell’uomo è una sola, quella alla vita divina, e dunque al possesso di Dio nella piena comunione con lui che è Santità (cfr. Gaudium et Spes, n. 22). Del resto, l’aver posto al centro della Chiesa il suo mistero di popolo adunato nell’unità del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, non poteva non comportare anche la riscoperta della santità quale fondamentale appartenenza a Colui che è il Santo, il tre volte Santo. Quelli che sono di Cristo Gesù camminano secondo lo Spirito e sono chiamati a risplendere come astri tenendo alta la Parola di vita, per cui rifiutano un’esistenza mediocre, condotta all’insegna di un’etica minimalista e di una religiosità superficiale.
“Chiedere a un catecumeno: “Vuoi ricevere il Battesimo?”, significa ad un tempo chiedergli: “Vuoi diventare santo?”; significa porre sulla sua strada il radicalismo del discorso della Montagna: “Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste”” (Novo Millennio Ineunte, n. 30): non basta dunque rinnovare i metodi pastorali, né organizzare e coordinare meglio le forze ecclesiali, né esplorare con maggiore sicurezza le basi bibliche e teologiche della fede: occorre suscitare un nuovo ardore di santità in ogni battezzato. Le parrocchie, le famiglie cristiane, i gruppi e i movimenti sono chiamati a diventare vere scuole permanenti di preghiera e di spiritualità, luoghi dove l’incontro con il Dio di Gesù Cristo è non solo possibile e concreto, ma misticamente realizzabile nel senso di offrire vie e percorsi di contemplazione e di esperienza dello Spirito.
Per giungere a questo, occorre che la comunità diventi spazio storico e visibile dell’umanità di Cristo nel suo essere testimone della sua persona, delle sue parole, dei suoi gesti di amore verso i poveri e ultimi, della sua donazione gratuita della vita. La figura di Maria, dei santi, dei martiri in particolare, hanno accompagnato passo passo il cammino di evangelizzazione e di testimonianza dei cristiani in tutte le vocazioni proprie del loro stato di vita: Papi e vescovi, sacerdoti e diaconi, religiosi e religiose e laici, coppie di sposi… offrendo a tutti la chiara visione di una Chiesa che sulla santità e il martirio fonda anche oggi la sua testimonianza efficace di fede alternativa al mondo, ma a servizio del mondo stesso e del suo futuro.
È da questa radice di santità propria di ogni cristiano, che scaturisce il primato della Parola di Dio, accolta nella conversione del cuore e della vita, la centralità della liturgia culmen e fons di tutta la vita cristiana e della Chiesa.
4. Il Concilio, attraverso le costituzioni Dei Verbum e Sacrosanctum Concilium, ha consolidato il movimento biblico e liturgico già in atto nella Chiesa e lo ha rinnovato e reso qualitativamente ricco di prospettive positive per la catechesi e la formazione spirituale del popolo di Dio. Possiamo ben dire che la catechesi e la liturgia sono stati i due ambiti teologici, ecclesiali e pastorali che più hanno fatto conoscere e vivere il Concilio al popolo di Dio e determinato un forte rinnovamento, che ha inciso profondamente nel costume religioso e nella prassi di vita delle parrocchie e comunità.
Non sono mancate letture e applicazioni del Concilio che hanno accentuato in modo unilaterale o con fughe in avanti o ritorni, di stampo un po’ fondamentalista, alcuni aspetti specifici del rinnovamento della catechesi o della riforma liturgica: e tutto ciò preoccupa anche oggi, per cui Papa Benedetto XVI in particolare ha avviato e promosso una serena, ma anche ferma riflessione, volta a confermare il Concilio, di cui non ha cessato di richiamare l’assoluta novità e validità, ma anche a superare interpretazioni e attualizzazioni unilaterali e poco rispettose dell’equilibrio che i testi conciliari e i successivi indirizzi del Magistero hanno via via offerto. Il Concilio non è stato un fattore di rottura con la tradizione della Chiesa, ma ha innestato in essa germi di rinnovamento che per molti aspetti hanno ricuperato proprio la grande Tradizione della vita della stessa Chiesa, nei suoi contenuti di fedeltà ed essenzialità al deposito ricevuto dagli Apostoli e dai Padri dei primi secoli, in quella prospettiva di nuova evangelizzazione adatta però ai nostri tempi.
Il Catechismo della Chiesa Cattolica, ad esempio, di cui abbiamo celebrato il ventesimo anniversario nel 2012, è un chiaro esempio di riequilibrio del rinnovamento della catechesi in modo da non disattendere i contenuti della fede pur nella necessaria ricerca pedagogica volta a sostenere gli itinerari specifici dei destinatari. La fedeltà a Dio e la fedeltà all’uomo, infatti, non sono due vie parallele, ma sono complementari e come tali vanno salvaguardate. Perciò, è necessario che la catechesi sia solida nell’impostazione teologica, nella certezza dottrinale derivata dall’insegnamento della Chiesa in cui interagiscono insieme la Bibbia, la Tradizione e il Magistero.
Così vale anche nella liturgia, dove le fughe in avanti sono state ancora più evidenti, per cui l’azione liturgica e in particolare la celebrazione dell’Eucaristia, cuore stesso della fede della Chiesa, hanno rischiato di accentuare quegli aspetti che hanno confuso e ridotto la partecipazione — elemento peraltro importante della riforma — con l’animazione attivistica del rito, rispetto all’accoglienza del mistero della fede e della comunione ecclesiale che si compie nell’evento sacramentale che sta al suo centro e che esige di essere accompagnato dall’atteggiamento del silenzio adorante e della contemplazione, oltre che dal canto, dalla preghiera corale e dai segni di condivisione. Per non parlare poi della proliferazione delle Messe a scapito di tanti altri momenti liturgici o di pietà popolare che, riferiti alla liturgia come fonte e culmine della vita cristiana, hanno sempre rappresentato un alveo portante della fede del popolo di Dio.
Sono solo due esempi, ma ovviamente si potrebbe continuare, richiamando altri aspetti in campo di riflessione teologica, nel dialogo ecumenico e interreligioso — pensiamo alla Dominus Iesus che ha dovuto precisare bene i confini entro cui muoversi in materia —, nel rapporto tra pastori e fedeli laici, in quello Chiesa-mondo, i quali hanno trovato un forte impulso anche attraverso i successivi sinodi dei vescovi che li hanno rivisitati per una sempre più attenta e fedele accoglienza, così da rivelare tutta la loro potenzialità positiva che il Concilio ha innescato e intendeva promuovere, ma anche per precisarne i contenuti e gli orientamenti nella loro corretta applicazione.
5. Certo, resta determinante il problema più complesso ma anche più importante da affrontare: come si diventa cristiani credenti in Gesù Cristo oggi, nell’attuale forte trapasso culturale e sociale che stiamo vivendo. E come poi si resta tali nel corso della vita.
L’iniziazione cristiana dei piccoli mostra tutta la sua carenza e sembra vanificarsi di fronte all’impatto con la maturità giovanile e adulta. La stessa catechesi e i catechismi, che tanto hanno contribuito a rendere efficace la proposta della fede in questi anni, mostrano però tutta la loro insufficienza quando non sono sostenuti da un ambiente vitale familiare e comunitario. Anche la preparazione alla celebrazione degli altri sacramenti — pensiamo al matrimonio, ad esempio — rivela tutta la sua debolezza quando viene interpretata come un passaggio obbligato per chi desidera riceverli.
Un po’ tutto l’impianto, dunque, che interessa i sacramenti in rapporto alla fede e alla vita nella comunità è bisognoso di una profonda revisione e coraggiosa verifica. È sempre più necessario che anche la catechesi pre-sacramentale, non dando per scontato l’atto di fede nei destinatari, si investa del problema della prima evangelizzazione e ne ricuperi il contenuto di annuncio e di cammino catecumenale. Ma diventa sempre più decisivo anche avviare nelle parrocchie una struttura di iniziazione alla fede post-sacramentale per famiglie, giovani e adulti, che rimetta al centro il tema della fede in Cristo — una fede adulta motivata e sicura — e sia in grado di accogliere ed accompagnare le persone sulla via dell’incontro con Lui.
Insomma, credo sia tempo di ridare vigore a una vera e propria “pastorale della fede”, così come i primi cristiani hanno fatto e come avviene anche oggi nelle missioni. Il catecumenato pre-battesimale e le varie forme di catecumenato post-battesimale rivolte a giovani, adulti e famiglie, che stanno entrando sempre più anche nella prassi pastorale delle nostre comunità, rappresentano un modello esemplare di questa pastorale, anche se rivolta a battezzati, ma che non sono più — o lo sono scarsamente — credenti, come tanti oggi che avvicinano la comunità per chiedere un sacramento o qualche specifico servizio religioso.
Questa scelta va di pari passo con gli itinerari differenziati che tengano conto delle persone prima che di schemi precostituiti uguali per tutti. I soggetti devono infatti determinare gli itinerari, non viceversa. Occorre superare una pastorale troppo rigida e ingessata dentro schemi costruiti a priori, che non tengono conto delle singole persone e della loro concreta situazione di fede e di cultura, oltre che di vita e di lavoro. La preparazione e formazione dei sacerdoti, diaconi religiosi e religiose, catechisti e formatori, accompagnatori e testimoni, diventa a questo punto decisiva per rispondere alle differenti esigenze e attese delle persone in modo più personalizzato.
Il rapporto Chiesa-mondo e il grande tema della nuova evangelizzazione
6. Due sono i punti di riferimento che il Concilio richiama con forza e che vanno dunque ripresi in questa prospettiva.
6.1. L’annuncio e la fede in Gesù Cristo
Il primo compito che la Chiesa oggi è chiamata non solo a svolgere, ma anche a rendere manifesto — nel senso che la gente deve vedere in concreto che è ciò che primariamente la interessa —, è la comunicazione della fede in Gesù Cristo, ritenendo destinatari di ciò tutti gli uomini, nessuno escluso, credenti e non. Lo deve fare dando credito anzitutto a Dio e alla forza del suo Spirito che agisce nella storia e nel cuore degli uomini; lo deve fare non sminuendo la forza alternativa del Vangelo e la trascendenza che esso ha rispetto alla vita dell’uomo, ma anche rendendosi solidale fino in fondo con le esigenze e attese di coloro a cui annuncia e propone il Vangelo.
Le vie dell’Incarnazione e della Redenzione rappresentano il modello concreto su cui camminare in quest’opera di nuova evangelizzazione. E qui emerge il compito di trovare esperienze, modi e linguaggi appropriati che si investano della storia delle persone, della loro cultura e mentalità. Niente è più decisivo dell’annuncio di Cristo morto e risorto; niente è più specifico e originale e proprio della Chiesa di questo: in ogni ambiente di vita e di lavoro, in ogni situazione, il kerygma e la proposta della Parola di Dio sono decisivi per fondare ogni altro discorso sui valori e sull’etica dei comportamenti. È necessario partire da alcune convinzioni che fondano e guidano sia i processi di formazione del cristiano, sia l’intera pastorale della Chiesa:
1) senza Dio l’uomo va alla deriva di se stesso e vanifica quanto di bene pure gli riesce di fare nel mondo. Dio non è un optional, ma la fede in Lui è determinante e fondamentale per dare significato e stabilità a ogni realizzazione storica per un mondo più giusto e pacifico. Un umanesimo senza o contro Dio si ritorce contro l’uomo e l’umanità intera, “[…] è un umanesimo disumano” (Benedetto XVI, Caritas in veritate, n. 78);
2) Cristo è l’unico salvatore del mondo e degli uomini; senza Cristo l’uomo è povero e solo; in Cristo vi è dunque la pienezza della verità e della vita ma anche della felicità cui ogni uomo anela;
3) nessuna realtà, nessuna persona è impenetrabile al Vangelo, perché in esso si trova la risposta e la proposta alternativa, ma vera e piena, a tutte le più profonde aspirazioni del cuore di ogni persona; la Parola di Dio è luce e guida che penetra nel tessuto dell’esistenza concreta degli affetti, del lavoro e del tempo libero, della sofferenza, dell’educazione e della cittadinanza, per purificare, assumere e orientare ciascuno verso il suo vero fine, che va oltre la realtà storica e appella al “di più” del suo compimento nel Regno di Dio;
4) il dialogo e il confronto con ogni altra componente religiosa e sociale, portatrice di culture e principi diversi dal Vangelo, è possibile e doveroso, ma non deve mai sminuire l’identità e la verità della propria fede e delle conseguenze che essa offre per la vita e i problemi concreti del vissuto sia personale, che familiare e sociale;
5) la nuova evangelizzazione non aspetta che la gente si affacci alla vita della Chiesa, ma anticipa le domande esistenziali che appellano a Dio e alla fede, aiuta le persone a porsele e se ne fa carico in modo preveniente (“predica in tempo opportuno e inopportuno”, dice Paolo a Timoteo, in 2Tm 4,2);
6) la fede in Cristo ha una rilevanza anche pubblica che non può essere disattesa ed esige dunque una testimonianza esplicita, coerente e unitaria, anche sul piano sociale, da parte dei cristiani.
6.2. La lettura dei “segni dei tempi”
Per rendere efficace tale nuova evangelizzazione, è necessario promuovere un discernimento del terreno culturale su cui cade l’annuncio e si sviluppa la comunicazione e l’esperienza della fede. Occorre saper scendere negli areopaghi moderni con la novità di Cristo. Ora, le sfide della cosiddetta postmodernità sono tante e complesse: ne richiamo velocemente alcune che sono continuamente presenti anche nei mass-media e alla portata del più vasto pubblico.
Penso all’informatica e alla cultura digitale, al connesso problema della globalizzazione economica, politica e culturale, che incidono ormai nella mentalità e nel costume di vita della gente più di quanto possiamo pensare; penso — e questa è la vera nuova rivoluzione del futuro — alle biotecnologie, un cantiere aperto a sviluppi imprevedibili, dalla decifrazione del genoma umano, ormai pressoché completa — per la prima volta siamo in grado di incidere in maniera diretta e fisica sul soggetto umano oltre che sull’ambiente —, alle manipolazioni genetiche e alla bioetica, un campo che ogni giorno ci pone dinnanzi a sperimentazioni paradossali e sorprendenti: la manipolazione degli embrioni umani fino alla clonazione ne è solo un ambito, anche se il più delicato e drammatico.
Penso inoltre alla ricerca scientifica e tecnologica, che non rispondono di per sé a riferimenti etici, ma non possono prescindere da essi, pena una deriva che conduce alla distruzione dell’uomo, del creato, del futuro stesso dell’umanità. Le conseguenze perciò sono decisive per la stessa vita umana sia individuale che pubblica. Dietro la questione etica vi è infatti quella più radicale antropologica, la quale riguarda chi sia l’uomo e il fatto che la persona umana non può essere paragonata a una qualsiasi particella della natura o del cosmo e dunque essere usata come mezzo per raggiungere traguardi scientifici o tecnologici. La domanda: “Chi è l’uomo?” non si pone più, ma al suo posto prevale quella su come rendere felice l’uomo, come soddisfare le sue esigenze fisiche, materiali e immediate.
Ed emerge così con forza il grande problema della libertà, del soggettivismo e dell’individualismo, della ricerca della propria realizzazione a scapito di tutto e di tutti e soprattutto di ogni norma etica al di fuori di sé. Questa mentalità e cultura ha riflessi fortissimi sul problema della vita umana dal suo primo istante al suo naturale tramonto, sulla famiglia fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna, sull’educazione delle nuove generazioni, sull’impostazione del lavoro e dell’economia globalizzata…
Non possiamo dimenticare, poi, la nuova realtà dell’intercultura e del pluralismo religioso connessi all’immigrazione, che sta suscitando nel nostro Paese una situazione inedita e per certi versi assai complessa. Il sincretismo religioso — “una religione vale l’altra” —, la crescita di comunità etniche che propongono modelli di vita e di comportamenti molto diversi e spesso in contrasto con la nostra tradizione, anche culturale oltre che religiosa, necessitano di essere attentamente seguite e gestite dalla Chiesa e dalle nostre comunità con la sapienza e lucidità necessarie, meno superficialmente e artigianalmente di quanto non abbiamo fatto finora.
Per finire, ritorno là dove sono partito poc’anzi, con il grande mondo della comunicazione, con il continuo tumultuoso evolversi delle relative tecnologie, che aprono nuovi orizzonti al sapere e alla cultura, ma anche nuovi pesanti condizionamenti alla libertà della persona e alle sue capacità di scegliere il bene, il vero e il buono nella vita anche di ogni giorno.
Osservazioni sul post-Concilio
7. La via indicata dalla Gaudium et spes e che resta tuttora valida riguarda il fatto che nulla di ciò che è genuinamente umano è estraneo ai credenti in Cristo e alla sua Chiesa. Occorre pertanto sviluppare un sapiente ed equilibrato discernimento, sotto la guida dello Spirito del Signore, sugli avvenimenti, le esigenze e le aspirazioni degli uomini, che sono proprie del resto anche dei cristiani, per scoprire in essi i veri segni della presenza o del disegno di Dio.
Questo significa che è possibile e doveroso individuare, dentro i fenomeni anche più complessi e negativi del nostro tempo, quei varchi entro cui si può far passare l’annuncio del Vangelo o che comunque appellano a un “di più” di senso e di verità che trova solo in Dio piena risposta e compimento. Varchi che possono pertanto orientare la testimonianza dei cristiani in dialogo e confronto con ogni altra realtà religiosa o laica presente nella società moderna.
Ma qui sorge un fattore che si è rivelato determinante nel postconcilio e che ha prodotto anche momenti complessi di confronto nella Chiesa in Italia. Ricordiamo, ad esempio, il Convegno ecclesiale di Loreto, con la discussione sul rapporto tra identità e presenza, quasi che queste due realtà, entrambe necessarie all’azione dei cristiani nel mondo, fossero antitetiche e si dovesse scegliere tra l’una o l’altra. Identità cristiana che si incultura nella storia e la cambia dal di dentro, o presenza coerente e forte dei credenti che dalla fede traggono una nuova cultura che rinnova se stessi e il mondo? Giovanni Paolo II, nel suo intervento a Loreto, indicò un cammino chiaro: “Occorre por mano a un’opera di inculturazione della fede che raggiunga e trasformi, mediante la forza del Vangelo, i criteri di giudizio, i valori determinanti, le linee di pensiero e i modelli di vita (cfr. Paolo VI, Evangelii nuntiandi, 19-20), in modo che il cristianesimo continui ad offrire, anche all’uomo della società industriale avanzata, il senso e l’orientamento dell’esistenza” (Discorso al Convegno della Chiesa italiana, Loreto, 11 aprile 1985). Il messaggio è chiaro: la fede cristiana è in grado di produrre essa stessa una cultura, per cui ne deriva la necessità di una chiara proposta della fede e un coerente impegno a renderla efficace nelle scelte dei fondamentali valori morali conseguenti. Una nuova implantatio evangelica, dunque, o — come dirà in seguito il beato Santo Padre — nuova evangelizzazione che si incarna in un soggetto-comunità storica, dove Cristo vive oggi e opera, comunità di vita e di cultura che chiamiamo “popolo di Dio”.
Il Concilio sta a fondamento di tale indicazione precisa e chiara che rappresenta ancora oggi il filo rosso su cui cammina e si impegna la Chiesa in Italia nelle sue varie componenti. Questo è lo scopo anche del progetto culturale ispirato al Vangelo che la Chiesa in Italia sta perseguendo da tempo per favorire, sul piano del pensiero e su quello del vissuto, con una forte carica di speranza, le capacità propositive e progettuali che la fede cristiana contiene e che l’azione concreta dei credenti è chiamata a sviluppare con coerenza, in ogni campo della cultura e del concreto vissuto personale e sociale.
Niente di ciò che è umano è estraneo alla fede cristiana, dal momento che il Verbo di Dio ha assunto nella sua incarnazione l’umana natura, l’ha purificata e salvata. Niente — dicono i Padri della Chiesa — è stato redento che da Cristo non sia stato assunto (cfr. Gregorio di Nazianzo [329-390 ca.], Epistola 101, in PG [Patrologia Greca] 37, 181). Per cui, in ogni realtà umana vi è come un appello chiaro o nascosto, ma reale, alla sua perfezione e compimento in Cristo, eccetto il peccato, ovviamente.
Così, per esempio, di fronte all’enorme sviluppo scientifico e tecnologico che sembra scalzare via via ogni certezza e verità assoluta, vi è anche la crescente consapevolezza negli stessi scienziati che ci si trova davanti a domande che non sono risolvibili con risposte formalmente scientifiche, eppure sono ineludibili proprio per il progresso della scienza: esse riguardano i fondamenti dell’esistenza e della realtà che appellano a un “di più” di senso che va oltre, apre al mistero di Dio o comunque al senso e al fine della realtà, che rientrano da sempre nella ricerca filosofica e teologica. Vi è al fondo della affermata intelligibilità intrinseca della natura stessa l’espressione di quella rivelazione sul Logos che ci offre san Giovanni e che è radicata nella tradizione ebraico-cristiana, fonte di tutta la nostra civiltà. L’anelito al trascendente, con tutte le sue ambiguità, è una sfida all’appiattimento del consumismo e al pregiudizio antireligioso di alcuni decenni fa: certo rappresenta, particolarmente nel nostro Continente, una grande sfida per la Chiesa (e le Chiese) e la sua opera di evangelizzazione.
Anche la globalizzazione e la comunicazione informatica non sono neutrali e sappiamo quanto incidono nel costume di vita delle persone; ma sono anche un’apertura a quell’universalità e comunione che fa della Chiesa il segno di unità del genere umano, la sua opera di solidarietà tra i popoli e di indirizzo sulle vie della pace e della giustizia, del vero sviluppo: ricordiamo le grandi encicliche sociali di Giovanni Paolo II e, più vicina a noi, la Caritas in veritate di Benedetto XVI. Lo stesso confronto e dialogo interreligioso, se da un lato sfida tante nostre comunità, dall’altro ci rende più attenti alla propria identità religiosa e culturale e permette di approfondire il rapporto tra annuncio e dialogo su basi meno sincretistiche e più sicure sotto il profilo teologico e pastorale.
Si tratta allora di far comprendere che i “no”, che la Chiesa e ogni cristiano è chiamato a dire di fronte a tanti messaggi dominanti nel nostro mondo, sono in realtà dei “sì” alternativi, ma profondamente radicati nella natura stessa dell’uomo, nella sua coscienza interiore: quello dell’apertura a Dio e al senso di una vita buona che va oltre le cose da fare, i beni da possedere, la realtà da gestire…; quello della verità che va oltre le opinioni parziali dettate dalla cultura o da posizioni ideologiche e si fonda sull’oggettività propria della natura stessa dell’uomo creato da Dio e sul suo pieno compimento in Cristo Gesù; quello della libertà che si apre alla stessa verità e al gratuito dono di sé; quello della fraternità che edifica una società giusta e solidale… Si tratta dunque di incarnare, mediante la nuova evangelizzazione, questi valori nella vita personale e comunitaria dei cristiani; soprattutto, di portarli dentro il vissuto concreto della gente, mostrando che il Vangelo è nello stesso tempo risposta a tutte le più vere e profonde aspirazioni dell’animo umano e proposta di rinnovamento interiore per cambiare i comportamenti di vita e la storia.
In mezzo al trapasso culturale che il nostro tempo sta vivendo e subendo, l’uomo non cambia e i problemi e le questioni vitali che lo coinvolgono restano sempre determinanti per la sua felicità e il suo futuro; è dentro questi fondamentali — richiamati con acutezza nel Convegno ecclesiale di Verona con i “cinque ambiti” —, che sono ad un tempo antropologici e spirituali, che il Vangelo e la vicinanza della comunità e dei cristiani possono risultare decisivi per il vero progresso in tutti i campi del futuro dell’umanità. Questo significa “fare cultura dal basso”, partendo dalla realtà della vita — come faceva Cristo, del resto — per giungere a proporla poi in forme anche pubbliche più rilevanti; un’opera comune da promuovere insieme da parte dei cristiani, ciascuno con la propria specificità: sacerdoti, religiosi, famiglie, teologi, ma anche laici impegnati nel mondo delle professioni, della cultura, della politica, della comunicazione…
Tocca dunque a tutti i credenti mostrare con le parole e con i fatti che il messaggio cristiano, così incarnato nel vissuto e nello stesso tempo così trascendente e aperto al mistero, è una grande forza di rinnovamento interiore e sociale, perché mantiene viva, nella coscienza personale e collettiva, la centralità etica della persona umana e quella fondamentale rete di rapporti reciproci di fraternità e accoglienza che sono la vera forza della cultura e della società. Così, il cristianesimo indica e orienta la via del futuro e non è solo un retaggio, pure valido, del passato o un ostacolo alla libertà — come spesso si dice —, ma una via per vivere con gioia e responsabilità la novità e speranza che nasce dal Vangelo, vera forza di rinnovamento personale e sociale nella storia, secondo la nota espressione di Paolo: “Tutto è vostro, ma voi siete di Cristo e Cristo è di Dio” (1Cor 3,22-23).
Conclusione
8. In sintesi, possiamo affermare che i processi di formazione, catechesi, omiletica, predicazione… debbono essere ripensati a partire da una prospettiva che unisca insieme, da una parte, annuncio di Gesù Cristo e, dall’altra parte, cultura e comunicazione. Bisogna ammettere che spesso la separazione tra fede e vita parte proprio dai nostri itinerari formativi, che non tengono conto di sostenere questa cesura nella concreta esistenza del cristiano, per cui i nodi del vissuto familiare, sociale, lavorativo, culturale… non entrano in gioco, restano fuori, assenti.
A questo non può non aggiungersi come decisivo lo sforzo di accogliere, ascoltare, accompagnare passo passo i cammini diversi delle persone alla fede e alla vita ecclesiale, superando regole standard per tutti, avvicinando la gente soprattutto nelle occasioni di vita più forti e decisive per il loro futuro, facendosi prossimi, incontrandoli là dove vivono, lavorano, soffrono…
9. Desidero terminare con una domanda di fondo che riassume il percorso svolto: come le nostre comunità possono essere ad un tempo sia segni dell’incarnazione del Figlio di Dio (solidale in tutta la vita e nella morte) e sia segni della trascendenza di Dio, capaci quindi di alimentare la ricerca appassionata del “di più” che appella al mistero, alla speranza, al futuro, al domani non chiuso dentro l’orizzonte del tempo e della storia?
Credo che l’Anno della Fede e il riferimento al Concilio possano dare un’efficace risposta a tale interrogativo, attivando nelle nostre comunità una serie di percorsi comuni su cui lavorare:
— guardare a questo decennio con un timbro di speranza incentrata sull’impegno di educare alla vita buona del Vangelo, anzitutto edificando una comunità educante a cominciare dalla famiglia e dalla parrocchia;
— riaffermare il primato della grazia e coltivare la vita secondo lo Spirito, avviando cammini di fede “adulta” e di preghiera nelle parrocchie, nelle associazioni e nei movimenti e curando la vita spirituale dei fedeli sulle vie della santità;
— improntare tutta la pastorale di formazione e di evangelizzazione sulla missione negli areopaghi del mondo moderno. Da qui, l’impegno a stimolare i laici in particolare a formarsi spiritualmente e culturalmente, per rendere ragione della speranza che è in loro. Per questo è necessario riconoscere la loro reale responsabilità ministeriale nelle comunità ecclesiali, ma soprattutto nel mondo vasto e complesso del lavoro, della cultura, della politica, della famiglia e della società, dove sono chiamati a unirsi per svolgere un incisivo servizio di annuncio e di promozione integrale della persona;
— riformare con realismo e fiducia i vari ambiti della pastorale, perché procedano concordi tra di loro su obiettivi e percorsi comuni sia di formazione degli operatori che di indirizzo, rendendoli tutti più missionari e meno autoreferenziali;
— curare le forme della comunicazione della fede, perché risultino efficace via di evangelizzazione per l’uomo di oggi dentro le categorie culturali e vitali che gli sono proprie.
È ovvio che in questo quadro di riferimento unitario ogni Chiesa particolare potrà e dovrà trovare le sue vie, che tengano conto delle proprie tradizioni e specificità, in modo da impostare il proprio divenire su cammini di comunione e di missione consoni alle sue concrete esigenze e attese.
Come ho aperto l’intervento con una citazione del beato Giovanni XXIII, il Papa che ha aperto il Concilio, così lo termino con un’espressione di Paolo VI [venerabile (1963-1978)], il Papa che lo ha chiuso: “Il Concilio è il catechismo dei tempi nuovi che la Chiesa è chiamata a fare proprio e a comunicare e a vivere, con l’insegnamento e la testimonianza della sua unità, a tutti gli uomini” (Discorso ai partecipanti all’Assemblea generale della CEI, 23 giugno 1966, Acta Apostolicae Sedis, n. 58).
Vi ringrazio dell’attenzione.
+ Cesare Nosiglia
arcivescovo di Torino