Di Giulia Pompili da Il Foglio del 18/01/2022
Mi chiamo Li Wang. Vivevo a Pechino, ma la mia famiglia viene da Hong Kong. Nel 2019, dopo aver sostenuto sui miei social le proteste pro autonomia, sono iniziati i problemi. Ho deciso di lasciare per un breve periodo la Cina perché non mi riconoscevo più nel sistema. Ho raggiunto mio cugino a Roma. Lui è partito poco dopo, io sono rimasto. Ho amato subito la libertà italiana, ho trovato un lavoro, e ho continuato a scrivere online quello che pensavo. All’improvviso le videochiamate che facevo con i miei genitori e i miei fratelli sono diventate strane. Mi imploravano di tornare a casa. Mio padre ha iniziato a darmi del traditore. Mio fratello, mi hanno detto, è stato più volte fermato e interrogato. Lo chiamano quanfan, è la tecnica della persuasione. Ho resistito all’istinto di tornare a casa ad abbracciare mia madre, ho chiesto a mio fratello di raggiungermi, ma ho capito che non poteva: gli avevano dato un divieto di espatrio. Poi sono cominciate ad accadermi cose strane. Mi ha telefonato la polizia cinese, mi ha detto che se non fossi tornato avrebbero arrestato tutta la mia famiglia. Mi ha detto che ero accusato di evasione fiscale e dovevo subire il processo, che sarebbero venuti a prendermi. Ho iniziato a sentirmi seguito. Sanno sempre dove sono. Probabilmente lo sanno grazie a quelle telecamere che sono istallate nella piazza davanti al mio appartamento. Il giorno che ho incontrato in via del Corso due poliziotti cinesi in divisa mi sono tremate le gambe. E alla fine, sono sparito. Nessuno sa più niente di me.
Li Wang non esiste, ma la sua storia è il paradigma di una persecuzione, la condizione in cui vivono migliaia di cinesi fuori dai confini nazionali. Sono gli obiettivi di un’operazione che il governo di Pechino chiama “Fox Hunt”, caccia alla volpe, lanciata nel 2015. Ufficialmente si tratta di una campagna anti corruzione, ma nei fatti, secondo documenti pubblici, dichiarazioni e vicende avvenute in paesi stranieri, verificate da media e ong, è una più sofisticata operazione per “controllare la diaspora cinese e per riportare le persone in Cina”. Quasi sempre si tratta di dissidenti o di critici del Partito comunista cinese. Quando i trattati di estradizione bilaterali tra Pechino e il resto del mondo non funzionano, quando l’Interpol boccia la richiesta di arresto di qualcuno da parte di Pechino, la Cina passa ad altri metodi.
Per la prima volta un report della ong Safeguard Defenders, che il Foglio ha consultato in esclusiva in Italia assieme ad altre testate internazionali, ricostruisce il sistema dei cosiddetti “ritorni involontari” in Cina: un sistema costruito sulla coercizione, l’influenza all’estero, operazioni segrete e l’indiretta collaborazione di stati sovrani, anche democratici, anche in Europa. Il report analizza 80 casi di azioni di rimpatrio involontario, 62 obiettivi (di cui 36 rimpatriati), in 18 diversi paesi.
Per convincere i cinesi a tornare in Cina, ci sono tre fasi, si legge nel report: la prima riguarda i membri della famiglia di chi è all’estero. La polizia locale va da madri, padri, fratelli, li obbliga a convincere il familiare a tornare, se non vogliono collaborare vengono intimiditi anche loro con fermi e arresti. Se la prima fase non funziona, si passa alla seconda. Vengono costruite squadre di “emissari”, anche poliziotti, che partono con visto turistico per il paese dove risiede il target. Lì fanno domande ai connazionali, trovano il soggetto, lo intimidiscono.
E’ anche per questo che i pattugliamenti congiunti tra forze dell’ordine italiane e cinesi, l’iniziativa “di cooperazione a tutela della sicurezza e a supporto della comunicazione con i turisti cinesi” lanciata dal ministero dell’Interno italiano nel 2015, è stata molto criticata. Ed è per questo che le videocamere con tecnologia di riconoscimento facciale di aziende cinesi come Hikvision e Dahua (ce ne sono almeno 2.430 nei luoghi pubblici d’Italia, ha svelato ieri un’inchiesta di Wired) sono un rischio altissimo per eventuali target di Pechino.
Il terzo metodo è quello applicato “in casi estremi”, quando le autorità cinesi “rapiscono obiettivi all’estero e li fanno rientrare clandestinamente in Cina”. I rapimenti “si sono verificati principalmente in paesi autoritari con cui Pechino ha stretti legami o una significativa influenza economica”. Ma l’intimidazione e la coercizione restano i metodi più usati: “A volte i cittadini cinesi all’estero sono costretti a tornare perché l’ambasciata rifiuta la loro richiesta di rinnovo dei passaporti, altri vengono presi di mira tramite attacchi informatici e molestie”. Secondo i dati ufficiali, dal 2014 almeno 10 mila persone sono tornate in Cina attraverso l’operazione Fox Hunt. Sono solo quelle di cui si hanno notizie.