Di Adriano Dell’Asta da La Nuova Europa del 16/02/2024
In memoria di Aleksej Naval’nyj, morto il 16 febbraio 2024.
Nella tragedia che si è consumata in una prigione del suo estremo nord, la Russia ha dimostrato il meglio e il peggio di sé.
Il meglio è evidente e ha un nome: Aleksej Naval’nyj.
Quali che fossero le sue idee politiche, ormai da tempo la sua persona e la sua azione le eccedevano ampiamente, essendo lui diventato il concentrato di quello che un popolo civile considera le coordinate della democrazia, della libertà e della dignità.
Esempio di democrazia, aveva mostrato in atto la disponibilità a battersi per una causa non strettamente personale: era infatti tornato in patria dopo che era stato oggetto di un tentato avvelenamento, ben sapendo di essere destinato alla galera, ma convinto di dover dare un esempio di coraggio civile che potesse scuotere un’opinione pubblica troppo accomodante con il potere, in patria ma, non dimentichiamolo, ancor più gravemente accomodante nel resto del mondo. Ora a morire è Naval’nyj, ma non dimentichiamo, appunto, gli avversari politici, gli oppositori e i giornalisti eliminati in questo primo ventennio del XXI secolo.
Esempio di libertà, non aveva smesso di essere libero, continuando a difendere la causa di tutta l’opposizione persino in carcere e persino quando vedeva che ogni sua azione scatenava le reazioni più odiose e assurde da parte dei suoi aguzzini.
Esempio di dignità, col suo ritorno e con la sua resistenza, aveva mostrato cosa significhi essere uomini in questa nuova versione del «secolo lupo», come la moglie del grande poeta Mandel’štam aveva chiamato i tempi di Stalin.
Il peggio della Russia non è meno evidente anche se non ha un nome unico ma, come si addice di fronte a certi omicidi, un nome collettivo perché il suo nome è legione, ed è omicida e mentitore sin dall’inizio.
Il potere, che ha rinchiuso Naval’nyj in una delle sue geenne, ha avuto infatti l’impudenza di assicurare che saranno eseguiti gli opportuni «accertamenti medici», là dove si dovrebbe parlare di accertamenti penali; questo stesso potere ha osato rimproverare l’Occidente di aver già trovato un colpevole, là dove non si tratta di cercare nulla, ma solo di vedere perché un uomo normale, invece che vivere e lavorare tranquillamente a casa sua, stava a duemila chilometri da Mosca, in una prigione di massima sicurezza, sottoposto a ogni forma di angheria e di arbitrio; questo potere ha osato, ancora, osservare, per bocca di un suo portavoce apparentemente autorevole (un rappresentante del senato russo): «Penso che sia un incidente, succede».
«Penso che sia un incidente, succede». Merita un nome collettivo il responsabile di una simile dichiarazione e di quanto sta accadendo, perché questo «succede» richiama in maniera troppo sinistra e istruttiva l’inizio del regime, quando, dopo l’affondamento del Kursk, a chi gli chiedeva cosa ne fosse del sommergibile perduto, Putin rispose nella maniera sprezzante di chi sa di non dover rendere conto a nessuno: «È affondato».
E oggi continua con questo disprezzo, avendo ancora la protervia di dire, quasi contemporaneamente, che non attaccherà mai la Polonia se non per «rispondere a un suo attacco» e che se la Polonia era stata invasa da Hitler era solo perché aveva «tirato troppo la corda».
Affermazioni di propaganda, ci siamo sbrigati a commentare, per evitare di spaventarci troppo ma, in fondo, anche cadendo in un tranello che rischia di distrarci dall’essenziale; perché quello che voleva il potere era forse proprio spaventarci e allontanarci dalla vera prospettiva di liberazione. Ma in rete circola una foto che è da sola la risposta più compiuta a queste e altre azioni o intimidazioni: è una foto di Naval’nyj con un cartello che reca la scritta: «Io non ho paura. Non abbiatene neanche voi!».
Sbaglieremmo a credere che si tratti di retorica o di una sfida irresponsabile: Naval’nyj ne è morto; si badi: è morto lui e non altri; e non è morto perché ha sfidato il potere, ma perché ha fatto la cosa che meno di tutte questo potere può tollerare dai suoi sudditi: che uno si assuma la propria responsabilità di uomo.
E al di là del significato letterale e politico di questo messaggio, ma secondo la modalità più classica della resistenza al totalitarismo (un tempo sovietico e oggi putiniano), sta proprio qui il lascito più profondo e impegnativo di questo sacrificio: Naval’nyj ci ha mostrato – ripeto, al di là di ogni dimensione politica – cosa significhi essere uomini oggi: agire in prima persona, non per un interesse personale ma, anzi, al di là e persino contro ogni interesse personale; come diceva uno dei primi commenti della Russia libera, non l’ha fatto per «prendere il posto del drago».
Naval’nyj non agiva per prendere il posto del drago ma, in prima persona, agiva per fare spazio a una forza davanti alla quale tutti siamo responsabili e alla quale tutti dobbiamo rendere conto se vogliamo essere degni del nostro nome di uomini e averne la forza altrimenti impensabile.
È un’altra cosa sulla quale bisognerà tornare, ma che colpisce nei primi commenti russi: lo spirito di sacrificio di cui Naval’nyj ha dato prova aveva delle fonti religiose, fonti di cui Naval’nyj stesso non ha mai fatto mistero e che erano state forse oscurate dalla religione ufficiale nel suo sconcertante e chiassoso asservimento al potere.
Così come bisognerà ritornare su un’altra cosa cui rischiamo di non prestare più la dovuta attenzione, snervati da questa ennesima tragedia: minoritaria fin che si vuole (come sempre del resto), questa Russia libera non si lascia mai abbattere sino in fondo e continua a sperare, come nel caso di Aleksandra Skočilenko che, condannata a sette anni e mezzo di campo, continua a dire che «la vita umana è un miracolo»; come nel caso di Il’ja Jašin che, di fronte alla prospettiva di poter essere liberato in uno scambio di prigionieri, la respinge per poter restare in patria ed essere pronto alla sua ricostruzione; e quanti altri casi potremmo ricordare in questo senso.
Tutti sconfitti, per il momento, ma questo non ha mai turbato la prospettiva del dissenso ai tempi dell’Unione Sovietica, come nel caso di Anatolij Marčenko, uno degli ultimi prigionieri di coscienza, morto in prigione nel 1986 durante uno sciopero della fame, anche in quel caso proclamato non per difendere un interesse personale, ma per chiedere la liberazione di tutti i prigionieri politici detenuti in Unione Sovietica.
Marčenko morì e il suo sacrificio sembrò inutile; ma al funerale la moglie lasciò il marito con queste parole: «Non avere paura Tolja, saranno tutti liberi». Qualche mese dopo, le pressioni internazionali costrinsero Gorbačëv a varare un’amnistia che fu poi uno dei capisaldi del futuro cambiamento di regime.
I tempi e gli uomini sono certo cambiati, ma la nostra coscienza non può perdere la propria memoria e il senso delle proprie responsabilità.